Il suo ultimo messaggio, un tweet, era stato per salutare una collega, una donna orgogliosa e decisa, che per tutta la vita aveva combattuto per restituire senso al concetto di giustizia: quella onesta e retta, troppe volte sopraffatta dalla sua variante cattiva, causa di condanne e carcerazioni ingiuste ai danni di tanti innocenti, suo padre incluso. Se n’era andata nella notte, dopo una lunga malattia che da tempo aveva afflitto il suo corpo e ridotto al nulla il suo brillante intelletto.
Poche ore dopo, però, era toccato anche a lui d’andarsene, a sua volta sopraffatto da un male che per anni era riuscito a tenere a bada nelle diverse sembianze sotto cui s’era riproposto. Aveva però mantenuto salde in mano fino alla fine le pacifiche armi del dialogo e dell’accoglienza, con cui - già prima d’essere eletto alla guida del suo grande Parlamento – aveva ritenuto si dovesse propugnare l’impegno per un’Europa davvero unita, senza diseguaglianze e discriminazioni, con la pacatezza e la sicurezza d’profeta benevolo dallo sguardo rassicurante e dall’animo nobile.
Silvia Tortora e David Sassoli hanno legato indissolubilmente i loro nomi ed i loro sforzi ad alti valori e a ideali possibili, di quelli che solo facendo fronte comune, senza dissidi e senza contrasti si possono concretizzare.
Senza mai proporsi né imporsi con arroganza o prepotenza, hanno portato avanti, sul terreno della comunicazione e del coinvolgimento di tutti gli attori della possibile riuscita, la loro crociata per la difesa dei diritti, della giustizia, della democrazia, anteponendo sempre il “noi” dell’appartenenza ad una collettività all’”io” della singola, egoistica, azione.
Silvia, nel piccolo orto della propria Nazione, e David, nel grande campo di una Unione tra Nazioni, in questo sprone all’agire condiviso ci hanno creduto, l’hanno difeso, ne hanno fatto il vessillo dell’impegno giornalistico, politico o, semplicemente, di “orgoglioso italiano”, attributo, quest’ultimo, con cui qualcuno ha delicatamente definito David ma che ben tratteggia anche Silvia.
Accomunati, dunque, nelle idee e nell’impegno, come dall’ammirazione e dalla stima che li attorniavano.
Tuttavia, qualcos’altro di più pungente li ha accostati, sebbene in tempi e con modalità diversi: l’appetito mediatico cui sono state date in pasto parti della loro esistenza, con sprezzo di qualunque forma di cautela o di rispetto.
L’una, ha conosciuto i ceppi d’una squallida gogna mediatica cui un’imprudente giuria di tribunali e di popolo aveva condannato l’uomo mite e gentile ch’era suo padre. “In una notte mia figlia è invecchiata di trent’anni”, aveva detto lui stesso all’epoca del su arresto: Enzo Tortora, conduttore televisivo e giornalista (morto proprio come sua figlia all’età di 59 anni) è stato la vittima di uno dei più clamorosi scandali giudiziari italiani. Nel 1983 era stato accusato - sulla base di dichiarazioni di soggetti provenienti da contesti criminali e su richiesta dei magistrati - di associazione camorristica e traffico di droga, reati dai quali, dopo un lungo e devastante iter giudiziario che gli era costato anche diversi mesi di reclusione, era stato infine assolto. A quel tempo Silvia aveva 21 anni e da allora era iniziata la sua battaglia per la verità. Con suo padre aveva condiviso il fardello di quella vergogna precipitatagli addosso, sottolineata dalla contesa tra le fazioni dei “colpevolisti” e degli “innocentisti” che, nel loro continuo dibattere, mantenevano la vicenda sotto i riflettori, rendendola argomento tanto di scontri politici che di tavolate.
Come acutamente aveva allora osservato Leonardo Sciascia, evidenziando quanto l’influenza dei mass media determinasse l’evolversi di un caso giudiziario, instaurando un “processo mediatico” che aveva riflessi negativi nelle vite delle persone coinvolte, l’opinione pubblica si era schierata pro o contro l’innocenza di Tortora in base a tendenze o simpatie: «Quando l'opinione pubblica appare divisa su un qualche clamoroso caso giudiziario - divisa in "innocentisti" e "colpevolisti" - in effetti la divisione non avviene sulla conoscenza degli elementi processuali a carico dell'imputato o a suo favore, ma per impressioni di simpatia o antipatia. Come uno scommette su una partita di calcio o su una corsa di cavalli. Il caso Tortora è in questo senso esemplare: coloro che detestavano i programmi televisivi condotti da lui, desideravano fosse condannato; coloro che invece a quei programmi erano affezionati, lo volevano assolto.»
Può dirsi lo stesso di ciò che è, vergognosamente, accaduto a David Sassoli a poche ore dalla sua morte, quando – attraverso i moderni canali mediatici che tanto condizionano le nostre condotte e che, grazie alla loro velocità, sono in grado di innescare effetti immediati - dalle file dei No-vax sono partite insinuazioni circa la correlazione tra la sua malattia ed il vaccino anti-Covid che aveva ricevuto.
Un tracotante professore di filosofia del diritto ha twittato pesanti e provocatori interrogativi a riguardo, chiosando il suo post con una delirante accusa: “costringete la gente a vaccinarsi e a morire. State costruendo una tirannia sanitaria mai esistita prima”.
Qualcun altro, ancor più ignobilmente, ha persino dichiarato la propria felicità (accompagnandola con un trionfo di emoticon) per tale presunta correlazione, così sbeffeggiando Sassoli al cui cognome ha pure applicato un falso diminutivo d’intenzione spregiativa.
Adesso, nell’era del mainstream, come allora, negli anni ’80, all’epoca del tubo catodico, gli effetti della comunicazione falsata restano evidentemente gli stessi e dunque, specie quando ad esserne toccati sono la memoria, lo stile e la rispettabilità d’una persona, il contegno più saggio da assumere – l’unico, forse, dal quale può scaturire un benefico effetto silenziatore - rimane quello del digiuno di repliche, l’assoluta indifferenza ad ogni offesa o provocazione, virtù che lo stesso David aveva spesso dimostrato di possedere.
Del resto, ogni persona per bene lo sa che – come dice un vecchio adagio - “la noncuranza è il maggior disprezzo”.