Quando quasi tre mesi fa la guerra in Ucraina è iniziata, tutto l’Occidente d’Europa è stato assalito dallo sconforto e dalla paura che il conflitto potesse assumere dimensioni mondiali. Noi italiani, per via della nostra maggiore prossimità ai territori assediati, quel timore lo abbiamo avvertito ancora più marcato.
Non c’era notiziario che non seguissimo; i nostri dispositivi mobili ci offrivano aggiornamenti in tempo reale, tempestandoci di notifiche. Dai palinsesti televisivi ai dialoghi da bar, l’attenzione era monopolizzata da quell’evento e noi tutti affamati di dettagli.
Si congetturavano tempi di durata e possibili soluzioni, mentre si assisteva impotenti al susseguirsi delle scene, violente e sanguinarie, d’un inferno in terra.
Immagini di dolore, morte e disperazione, che poi sono quelle di tutte le guerre, per le tragedie che provocano e per le ferite che lasciano. Cambiano solo i luoghi, le fisionomie delle genti, la stagione, ma i patimenti sono gli stessi; il rombo delle bombe, le urla di terrore, il suono sommesso dei lamenti e del pianto sono uguali ovunque, come pure le macerie, gli spettri di animali che sono stati domestici che si aggirano inquieti ed affamati, i brandelli di vite distrutte le cui tracce si colgono in una foto bruciacchiata, una scarpa spaiata, un giocattolo smarrito tra le ceneri d’un’esplosione. Il silenzio pesante del dopo.
Poi, però, tutta quella tensione, la partecipazione, l’assedio alle fonti d’informazione cominciano a scemare.
Come accade per tutte le cose, belle o brutte che siano, il loro reiterarsi finisce per renderle scontate e banali. Perdono quell’eccezionalità che prima le aveva rese differenti e si riversano nella normalità, divenendo routinarie. E così anche il dolore e la morte si trasformano in consuetudine: per chi li patisce, perché la rassegnazione diventa l’antidoto per la sopravvivenza; ma soprattutto per chi li osserva da spettatore esterno e lontano, tra una tazza di thè ed un pisolino sul divano.
Anche la comunicazione si adatta a questo cambiamento: diminuiscono le serate a tema, i dibattiti e i confronti televisivi, perché la ripetizione dell’argomento alla fine l’appiattisce e stanca la platea, che solo con la proposizione di novità significative o colpi di scena può ridestarsi.
La verità è che ci si abitua a tutto: anche alle tragedie; anche alla guerra.
Le notizie cominciano allora ad assumere una valenza sempre meno denotativa, perdendo la loro portata realistica per divenire quasi tratti episodici di un racconto, di un reality nemmeno troppo avvincente.
Anche la pietà e la compassione si riducono, pungendo le coscienze come spilli, non più come lance.
Il rischio conseguente è l’indifferenza.
Ed è allora che s’erge il confine: non quello che separa i territori, la frontiera fisica tra l’orrore e la salvezza, ma quello invisibile che ci consente di anestetizzarci e non sentire il dolore degli altri.
Quando la guerra diventa abitudine, cessa l’empatia: non si sente più ciò che provano gli sfollati, i profughi, gli orfani e quelli che sotto i bombardamenti hanno lasciato ogni cosa.
Diventano “gli altri”, i numeri con cui si quantificano danni e vittime alle quali non si assegna alcuna identità ma solo una nazionalità, diversa e distante dalla nostra e che, perciò, riduce il nostro coinvolgimento.
Tra noi e loro resta un unico tratto comune: la povertà, solo che la loro è di mezzi, la nostra è d’umanità.
Salviamoci e salviamo le nostre generazioni future, prima che l’ipocrisia e la disumanizzazione diventino mali incurabili.