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L’amico ritrovato

Autore: Ester Annetta
Prendendo in prestito il titolo del noto romanzo di Fred Uhlman, mi piace così parafrasare questa storia, che spicca, come una primula tra la neve, nella gelida e sempre più drammatica narrazione delle condizioni delle carceri italiane.

È una piccola storia di grande umanità, di quelle sufficienti a convincere che anche negli ambienti più difficili si possono trovare scampoli di empatia, che pure nelle gestioni più problematiche sono rinvenibili soluzioni efficaci e che dall’iniziativa dei singoli si può trarre ispirazione e modello per innescare processi di revisione e mutamento più ampi ed efficienti.

Protagonista di questa vicenda è Massimiliano, un uomo di 54 anni, italiano, con un vissuto difficile di solitudine e dolore. Sua madre è morta quando lui era ancora un bambino e di suo padre non ha più notizie da anni.

Non ha un lavoro fisso né un vero e proprio tetto: vive infatti in un camper dismesso su un terreno di campagna concessogli dal parroco di Santa Maria al Bagno, in provincia di Lecce. Conduce una vita schiva e riservata che aggrava ulteriormente la sua condizione di solitudine resa ineludibile da carenze relazionali che mai è riuscito a sanare.

Unica sua compagnia, fedele e costante, è Zair, il suo cane, con cui lo si vede in ogni stagione fare lunghe passeggiate sul lungomare della città.

I suoi concittadini descrivono Massimiliano come una persona ordinata, gentile e garbata; riservato, si, ma sempre disponibile a conversare con chiunque non lo tratti come un’ombra, un invisibile, e gli offra un po’ del suo tempo.

Qualche errore, però, Massimiliano l’ha commesso: la sua condizione di vita condotta ai margini della società l’ha in passato indotto a cedere a malazioni finalizzate a soddisfare qualche suo bisogno materiale ed a macchiarsi di colpe che, sebbene rimaste minime per entità, hanno assunto comunque rilevanza agli occhi della giustizia.

È perciò finito in carcere, a dover scontare un tempo di reclusione cha ad oggi ha già compiuto un anno.

E in tutto questo tempo Massimiliano non ha mai ricevuto una visita. Nessuno ha mai chiesto di avere un colloquio con lui nei giorni qualunque o in quelli di festa; nessuno si è mai interessato d’avere sue notizie, sapere come stesse, offrirgli la piccola attenzione di una chiacchiera, di un racconto, di una parola tesa su un filo d’aria che lo ricongiungesse al mondo di fuori, oltre i muri di quella prigione.

Prigioniero della sua solitudine, come in fondo è sempre stato anche da uomo libero.

Zair è rimasto fuori, affidato alle cure di una famiglia cui è stato consegnato quando Massimiliano ha dovuto lasciarlo per entrare in carcere. È lui il suo unico amico, il solo essere che potrebbe donargli un po’ di conforto con la sua sola presenza, con gli scodinzolii, col guaire gioioso che sottolinea ogni ritorno, breve o lungo che sia. E lui soltanto che Massimiliano vorrebbe rivedere.

E allora succede.

Iniziano una serie di scambi tra la direttrice del carcere, la polizia penitenziaria, il funzionario giuridico pedagogico, l’avvocato, finché si riesce ad organizzare quell’incontro in cui Massimiliano ha continuato a sperare.

Avviene in un posto bellissimo, il più simile ad un prato libero dove un uomo e il suo cane possano scambiarsi effusioni, rincorrersi, giocare: è il roseto del carcere, che lo stesso Massimiliano cura meticolosamente ed appassionatamente da quando è lì. Quasi come se lo stesse preparando per quell’occasione.

Sono due ore di emozioni intense, di intesa immediatamente ritrovata, di quelle che restano solide ed indissolubili tra due esseri che si sono scelti, anche se costretti dagli eventi a rimanere divisi. Di amore autentico e disinteressato.

È difficile restare umani in un mondo sempre più corrotto e avvezzo a vicende disumane.

Eppure ne basta soltanto uno di gesti d’umanità a restituire fiducia in un cambiamento, in una redenzione ancora possibile.

Sembra essere racchiusa qui la morale di questa piccola storia, che al tempo stesso suggerisce anche un monito a non trascurare la necessità che dietro le sbarre di una prigione gli individui non perdano la loro identità, non diventino soltanto numeri o generici detenuti, ma continuino ad essere “allenati” alla civile convivenza, all’onestà e ai sentimenti.

Ciò comporta l’indispensabilità di individualizzare il trattamento detentivo, di dedicare attenzione specifica anche ai bisogni della personalità di ciascun detenuto, che è la formula corretta per consentire davvero di affidare alla pena la funzione rieducativa e riabilitativa che dovrebbe esserle propria.
 © FISCAL FOCUS Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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