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L’apocalisse

Autore: Ester Annetta
Il costone di ghiaccio precipitato giù dalla Marmolada ha lasciato un vuoto bianco-azzurrino la cui forma ricorda la cavità di un occhio: un occhio ciclopico, che dalla sua scavata profondità pare ammonirci.

È l’occhio di uno sguardo severo, di rimprovero, il mal piglio di una madre che ha colto ancora una volta il figlio commettere una marachella, la stessa da anni, che nemmeno la prima volta l’ha divertita e che ora, per via della sua reiterazione, comincia a diventare un segnale preoccupante.

È l’occhio di uno muto e spietato accusatore, che col suo opprimente silenzio sottolinea la responsabilità degli uomini, colpevoli dell’ennesima tragedia che ormai non può affatto più dirsi solo naturale.

C’è una calma surreale che segue al dramma, un silenzio di morte che aleggia sulle cime del massiccio, interrotto solo dal ronzio degli elicotteri che come fastidiose mosche tracciano traiettorie irregolari su ciò che si è ormai decomposto.

Scuote il pensiero dei corpi degli escursionisti smembrati dalla potenza d’una enorme massa di ghiaccio e detriti che li travolge, precipitando violentemente e velocemente a valle, senza lasciare il tempo di capire né di fuggire. Scuote che debba essere un test del DNA a ricostruirne le identità dai brandelli ritrovati, e dilania l’anima che un limpido giorno di vacanza e libertà ritagliato in una estate precoce si sia trasformato in una voragine buia di disperazione, in cui vite ordinarie - ma speciali per i propri affetti - sono scomparse per sempre.

Ciò che invece pare ancora non scuotere abbastanza è la colpa di cui l’occhio ci accusa, la sua consapevolezza, l’enorme distanza che ancora ci separa dalla presa di coscienza delle nostre responsabilità.

Non piove da mesi perché fa caldo – ci diciamo – è fa caldo perché è un’estate particolarmente torrida, e anche questo ce lo diciamo ogni anno.
Ci sono gli incendi perché qualche balordo lancia un cerino o un mozzicone di sigaretta tra la sterpaglia secca, ma perché ci sia tanta sterpaglia secca non ce lo chiediamo.

I grandi fiumi si sono ritratti, lasciando crepe profonde negli alvei abbandonati che assomigliano alla parte di lenzuolo che resta stropicciata quando si passa da un lato all’altro del letto pur continuando a dormire: e, difatti poco più in là il fiume continua a scorrere, ci diciamo.

Ma poi, che fa? Tanto torna l’autunno, con le sue piogge torrenziali e i chicchi di grandine di dimensioni più giuste rispetto a quelli che precipitano improvvisi a giugno distruggendo intere coltivazioni. Anche la temperatura si abbasserà, ripristinando la compattezza dei ghiacciai che ora minacciano di sfaldarsi. È solo una questione di tempo!

Sì, è davvero una questione di tempo, non però perché tutto si aggiusti ma perché la catastrofe continui.

Finché continueremo a curare ciascuno il nostro piccolo orticello preoccupandoci di tenere solo quello al riparo dalle bizze atmosferiche e climatiche, a utilizzare sostanze dannose, a gettare plastica, a non differenziare i rifiuti e a sprecare energia perché - un po’ come funziona con l’astensione dal voto - “che differenza vuoi che faccia la mia azione di singolo”, i nostri, di occhi, continueranno a restare ciechi, a non vedere l’ampiezza dei danni che la nostra noncuranza sta contribuendo ad incrementare.

Finché continueremo a pensare che tanto c’è la Greta Thumberg di turno ad esporsi e manifestare al posto di tutti e che alla sua battaglia è sufficiente contribuire ascoltando i suoi appelli in tv, come fosse l’orazione all’ora dei vespri recitata più per abitudine che per convinzione, non comprenderemo la portata d’un rischio che non è quello di una, dieci o cento slavine che precipitano a valle, ma quello più preoccupante dello sprofondamento dell’intera umanità nell’abisso di una indifferenza letale.

Quando infine giungerà il momento della presa di coscienza – perché è certo che ci sarà! - forse non ci saranno più zattere di salvataggio su cui salire né acqua dolce con cui dissetarsi.

Scopriremo di non essere foche capaci di vivere su placche di ghiaccio galleggianti né pesci fluttuanti in un mondo liquido che resterà il solo superstite dei quattro elementi.

Saranno esaurite le scorte e le riserve, e avremo fame, sete e paura. Infine periremo, come la cicala rimasta tutta l’estate a cantare mentre poche formiche avranno continuato a lavorare incessantemente per fermare il disastro, per sveglire le coscienze, per ricordare all’umanità che il tempo del sole d’una eterna stagione calda è in realtà un fuoco che lentamente distrugge, divora la terra, la consegna ad un destino irreversibile di consunzione, di soffocamento, di estinzione.

Non illudiamoci che quando tutto questo accadrà noi non ci saremo più e forse neppure i nostri figli e nipoti: di questo passo non sarà una questione di secoli, ma solo di qualche decennio.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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