Denis Leonidovič Macuev la musica ce l’ha nel DNA, giacché è nato e cresciuto in una famiglia di pianisti. Come un novello Mozart, già a tre anni ha rivelato il suo talento, riproducendo sul pianoforte una musichetta ascoltata in tv, con un dito soltanto. E quel talento lo ha coltivato così bene che nel 1998, a soli 23 anni, poco dopo essere uscito dal al Conservatorio Čajkovskij di Mosca ha vinto il primo premio all'11° Concorso internazionale Čajkovskij diventando l’artista di spicco della più grande tradizione pianistica russa ed affermandosi come uno dei più importanti pianisti della sua generazione.
Ha partecipato ai maggiori festival internazionali; si è esibito nei templi più prestigiosi della musica e con le orchestre più famose, arrivando a compilare curriculum d’autentica eccellenza. Basta navigare un po’ nel mare del web per avere un saggio di quanto questo artista – che oggi di anni ne ha 48 – sia straordinario.
Denis però un difetto ce l’ha, ed è tale da aver avuto la meglio su tutti i suoi meriti, la sua genialità, e la sua bravura.
Denis è filoputiniano.
Ha appoggiato Putin nel 2014, durante l’invasione della Crimea; ne ha sostenuto la candidatura nelle elezioni del 2018 e le sue proposte di modifica costituzionale del 2020. È stato membro del Consiglio del presidente per la cultura, e, in una intervista rilasciata qualche anno fa, si è definito “orgogliosamente russo”, sottolineando che, a differenza di altri suoi colleghi, non ha mai preso un secondo passaporto da impiegare come eventuale via di fuga.
Colpe considerate troppo pesanti per consentirgli la partecipazione al 60° Festival pianistico internazionale di Brescia e Bergamo – quest’anno designate capitali italiane della cultura – che aveva in calendario due suoi concerti per il 24 ed il 27 maggio.
Una rinuncia non da poco, dal momento che l’organizzazione del Festival lavorava da due anni per garantirsi la presenza di quello che è considerato tra i massimi pianisti al mondo.
Ma, “ubi maior minor cessat”. E, dunque, di fronte alla lettera che l’ambasciatore ucraino in Italia ha inviato a inizio febbraio ai sindaci delle due città chiedendo di annullare dalla rassegna i concerti di Denis Matsuev, la risposta è stata pronta: «Abbiamo valutato con attenzione quale decisione fosse giusto assumere – hanno replicato i due sindaci - non certo perché sia in discussione il nostro netto sostegno alla causa del popolo ucraino costretto a difendere la propria Patria dall’invasione russa, quanto perché riteniamo che la cultura, in quanto portatrice di valori di umanità e bellezza, dovrebbe poter godere di una libertà di espressione non condizionata dai conflitti che investono la sfera della politica».
E poteva finire qui.
Invece la risposta è così proseguita: «il caso di Denis Matsuev è però diverso», giacché è chiaro che «il reiterato ed esplicito sostegno che Matsuev ha espresso nei confronti della politica di Putin, dall’invasione della Crimea alla modifica della Costituzione in vista dell’instaurazione di un regime autocratico, senza una minima presa di distanza dalla scelta di invadere il territorio ucraino, definiscano un profilo non più solo artistico ma pienamente "politico" del pianista russo».
Mi è tornato in mente l’episodio – purtroppo già dai più dimenticato - della censura del corso di Paolo Nori su Dostoevskij da parte dell’università Bicocca, lo scorso anno.
Allora come adesso è evidente una presa di posizione che la dice lunga sulla nostra miseria culturale! E sorprende pure che stavolta nella defaillance sia incappata (anche) Brescia, che sui diritti, sulla libertà di espressione e di parola, sulla dignità e sul rispetto che va riconosciuto a chiunque, in qualunque luogo del pianeta, si era già chiaramente espressa proprio in occasione dello scoppio del conflitto in Ucraina, con la grande manifestazione contro la guerra indetta pochi giorni dopo a Piazza della Loggia (ripetuta ancora quest’anno, il 26 febbraio, per le vie del centro storico) e con una serie di iniziative artistiche e culturali dedicate ad altri preziosi interpreti, cittadini di Paesi che combattono altrettanto spietate e ingiustificate guerre.
Stavolta però si sarebbe reso necessario qualcosa in più che la semplice retorica: un atteggiamento coerente e deciso che dimostrasse l’assoluta impermeabilità del mondo della bellezza, dell’arte e della cultura – patrimonio universale di tutta l’umanità, come riconoscono gli stessi sindaci – a connotazioni politiche ed idee individuali che possono esprimersi in altri contesti ma con esso invece non hanno ragione di confliggere.
Denis Macuev non sarebbe certo venuto a Bergamo e Brescia a comiziare né tanto meno a fare propaganda. Sarebbe venuto soltanto a dar saggio del suo talento e del suo virtuosismo, senza sventolare alcuna bandiera; a nutrire l’anima con la sua arte e la sua musica, cibo senza etichette di origine controllata o geograficamente protetta.
Poteva allora essere, la sua presenza, un’occasione per abbattere muri anziché elevarli; per trasmettere il messaggio che, come l’arte può essere uno strumento di mediazione, allo stesso modo bisogna individuare altri mezzi che possano veicolare la pace superando le ragioni d’odio, e che sono altre le “armi” che bisognerebbe dare in prestito ai contendenti.
La scia di note di un pianoforte si sarebbe allora potuta trasformare in un sentiero o in un ponte per ricongiungere, per riavvicinare. Il Festival avrebbe potuto dare alla presenza di Matsuev (e magari pure di altri musicisti provenienti da terre dove si combattono altre guerre) il significato di una tregua, di un “cessate il fuoco” scandito dalla melodia d’una partitura, un segnale breve ed effimero ma pregno di valore.
Bandire le persone per le idee che sposano e le opinioni che professano è spesso un segno di becera intolleranza, della cui inefficacia la storia ha più volte raccolto esempi.
È solo il dialogo che può fare la differenza, che può indurre a cambiare o a smussare convinzioni, anche quelle più radicate. Può cambiarle Matsuev, può cambiarle Putin.
Ma forse la mia è una visione troppo romantica.