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L’eredità

Autore: Ester Annetta
Rimbombano ancora oggi, potenti e suggestive come quel 25 maggio del 1992, le parole che Rosaria Costa – da due giorni diventata ‘vedova Schifani’ - pronunciò durante i funerali di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti della scorta - Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani – uccisi nell’attentato di Capaci.

"Io, Rosaria Costa, vedova dell'agente Vito Schifani mio, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato..., chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c'è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare... Ma loro non cambiano... loro non vogliono cambiare... Vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue, troppo sangue, di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l'amore per tutti. Non c'è amore, non ce n'è amore...".

Sono trascorsi quarant’anni da quando, con l’assassinio dei giudici Falcone e Borsellino compiuti a distanza di 57 giorni l’uno dall’altro, la mafia giunse al culmine della sua sfida allo Stato, colpendo in specie tutti coloro che, a partire dalla costituzione del pool antimafia e grazie alla collaborazione del primo pentito di mafia della storia – Tommaso Buscetta –, erano riusciti a ricostruire l’architettura di Cosa Nostra e a disarticolarla.

Quel 23 maggio, dopo che con centinaia di chili di esplosivo avevano fatto saltare il tratto dell’autostrada tra Palermo e Punta Raisi su cui viaggiava Falcone, al telefono i boss si compiacquero per quell’azione eclatante, definendola un “attentatuni”. Credevano d’aver così eliminato il loro nemico numero uno, non immaginando che quel gesto - e l’omologo che, poco più tardi, avrebbe riservato a Borsellino la stessa sorte del suo collega e amico di sempre - si sarebbe tradotto in sdegno generale, sollevando l’immediata reazione dello Stato che, all’indomani della strage di via D’Amelio, avrebbe disposto per 156 boss detenuti il regime carcerario del 41 bis, trasferendoli a Pianosa e all’Asinara.

E, ancora, mentre dalle istituzioni partiva l’operazione “Vespri siciliani”, che affidava all’esercito compiti di vigilanza e tutela sugli “obiettivi sensibili”, Palermo si mobilitava, appendendo ai balconi centinaia di lenzuoli con impresse le parole dei due giudici - divenute espressione di una potente ribellione collettiva -, e stendendo una catena umana tra l’Albero piantato sotto casa di Falcone e il Palazzo di Giustizia, a simboleggiare la volontà di istituire un legame indissolubile con la legalità.

Undici donne siciliane, nel giorno del funerale di Borsellino, pure diedero vita ad una singolare protesta civile che andò avanti per un mese intero ed alla quale si unirono altre donne: occuparono Piazza Castelnuovo con una staffetta di digiuno, per denunciare la loro “fame di giustizia”. Sull’esempio di Gandhi, che per primo aveva adottato il digiuno col significato di assunzione di responsabilità e purificazione, in quell’estate del 1992 “Le Donne del Digiuno” (come furono definite nella mostra fotografica che, qualche anno dopo, dedicò loro il giovane fotografo Francesco Francaviglia) diedero segno della loro responsabilità nel voler assumere un atteggiamento mentale opposto a quello dell’indifferenza verso la realtà mafiosa e di purificazione da tutte le sue forme di influenza.

Il dolore e lo sgomento dovevano essere rimpiazzati dalla voglia di combattere, perché quella era l’eredità che con il loro sacrificio Falcone e Borsellino avevano lasciato; quella era la ricetta per giungere al cambiamento invocato dalla vedova Schifani.

Com’è stata impiegata quell’eredità? Quanto è stata efficace l’azione per promuovere la cultura della legalità? Tanto, evidentemente, giacché le inchieste della magistratura e le indagini delle forze di polizia sono proseguite: spezzando collusioni e coperture istituzionali; catturando - dopo anni di latitanza - e condannando i vertici della cupola, da Totò Riina a Bernardo Provenzano; riportando nel circuito dell’economia legale le enormi ricchezze accumulate con le intimidazioni e il sangue, affidando aziende e terreni sottratti alla mafia a cooperative di produzione e lavoro, secondo il dettato della legge “Rognoni-La Torre”, alla cui formulazione tecnica, in prima stesura, avevano partecipato gli stessi Falcone e Borsellino. I giovani, soprattutto, sono stati coinvolti in progetti legati alla legalità (con iniziative come “La Nave della Legalità”, che ogni anno, il 23 maggio, salpa da Civitavecchia per raggiungere Palermo) affinché proprio loro, quali continuatori della nostra società, ne diventino portavoce e testimoni.

Ma il cammino è ancora lungo e si addentra a volte su percorsi insidiosi, come oggi, a distanza di quarant’anni, appare spesso evidente: per un verso, la criminalità organizzata ha cambiato i suoi schemi d’azione ma non ha perso di pericolosità e, anzi, si è insinuata tra le pieghe della società sotto mentite spoglie, indossando una maschera di apparente rispettabilità. Per altro verso, la condotta della stessa magistratura talvolta sembra deragliare dai binari di trasparenza e correttezza tracciati dai due giudici, cessando di essere irreprensibile e cedendo alla lusinga del consenso mediatico, che finisce perlopiù per smontarne l’autorevolezza.

Il risultato è una crescente sfiducia dei cittadini nei suoi mezzi e nella sua efficacia, ove il dubbio sia che obiettività e neutralità del giudizio siano inficiate dal condizionamento indotto dalla ricerca di notorietà e dalla vanità.

Ecco allora che diventa necessario recuperare quella solidità, quella prudenza, quella verificata attendibilità che caratterizzavano le inchieste di Falcone e Borsellino, riconducendo la funzione giurisdizionale al suo ruolo, discreto e riservato, di “servizio per il Paese”, allontanandola conseguentemente dal palcoscenico della risonanza mediatica e dell’autocelebrazione.

La lotta alla criminalità e la pratica della legalità non sono esercizi di stile né prove d’attore, ma costituiscono un impegno concreto e serio, teso a garantire il senso autentico della giustizia, l’incorruttibilità delle istituzioni, il rispetto delle garanzie processuali.

Questa è la via “giusta” (appunto!) da seguire perché la preziosa eredità lasciataci quarant’anni fa da due leali e audaci difensori dello Stato e della società non sia dilapidata.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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