Mentre ovunque si organizzano eventi virtuali per celebrare il settecentesimo anniversario della morte di Dante, in una dimensione più ristretta e intima, qual è quella della lezione in presenza col 50% della classe, l’ora di italiano dedicata al terzo canto dell’Inferno diventa un’occasione di riflessione più spicciola – ma non meno efficace – per riportare ai giorni nostri il significato di due termini che, già desueti nel linguaggio comune, le nuove generazioni ignorano del tutto.
Lo spunto di conversazione nasce da una breve ricerca assegnata nella lezione precedente: scrivere due brevi definizioni dei termini “ignavia” e “accidia”.
Quella sparuta decina di alunni cui è toccato l’odierno turno in presenza viene dunque chiamata a relazionare.
L’uno dopo l’altro iniziano a snocciolare il risultato del copia-incolla in cui - senz’altro ulteriore impegno di elaborazione – s’è tradotto il loro impegno domestico di ricerca sul vocabolario Treccani online o su Wikipedia.
Pronunciano senza alcuna effettiva consapevolezza (e talvolta sbagliando persino l’accento del lemma) quel breve elenco di sinonimi o d’esempi che hanno prodotto, dando così per assolta la consegna.
Qualcuno un po’ più ardito azzarda anche un’etimologia (impresa davvero ardua per loro che sono informatici e di greco e latino sono davvero digiuni), leggendo sul telefonino l’appunto che ha trascritto (o più probabilmente lo screenshot della definizione che ha trovato in rete):
“Accidia proviene dal tardo latino acēdia, che a sua volta deriva dal greco akedìa, composto da alfa privativo e kedìa “cura, sollecitudine”, da cui il significato di “mancanza di cura, di sollecitudine”.
Un altro precisa:
“L’ignavia invece è la persona….cioè, non la persona ma l’atteggiamento de ‘na persona che nun cià voja de’ fa gnente, quella pigra, insomma.”
Un terzo – un po’ più studioso degli altri – incalza:
“Infatti gli ignavi sono quelli che Dante colloca nell’Inferno – anzi, nell’Antinferno – perché sono colpevoli di non essersi mai schierati in vita loro, di non aver mai preso una posizione. Perciò sono condannati, per contrappasso, a correre dietro una bandiera che, in pratica, è come il simbolo di un ideale che quand’erano vivi non hanno invece mai inseguito”.
Il compito però non finisce qui. Ora si tratta di contestualizzare l’argomento, di riportare nella realtà, nel quotidiano, il senso di quella ricerca, oltre il significato delle espressioni.
Il nuovo quesito allora diventa: “
Voi vi sentite più ignavi o più accidiosi?”
La domanda è insidiosa.
Com’è tipico d’ogni volta che vengono interrogati, quei pusillanimi anche ora temono di fare brutta figura, d’essere giudicati per la risposta che daranno.
E allora scelgono tutti quella che può apparire meno criticabile – la pigrizia – il vizio che, in una misura o nell’altra, più o meno tutti accusiamo.
“Ignavi!” È la risposta unanime.
Non sanno, i poverini, che nemmeno quella è la “verifica” risolutiva. È necessario scavare ancora, scendere un po’ più in profondità per sondare quegli spiriti imberbi, tentare di capire cosa davvero s’agiti nei loro animi al di là della loro apparente esuberanza, se e quali sentimenti siano in grado di condizionare le loro azioni.
“Torniamo ora all’accidia. “Mancanza di cura”, abbiamo detto. Voi di chi o di cosa vi prendete cura?”
C’è una lunga pausa di silenzio in cui ognuno sembra più intento a spiare la reazione degli altri che non concentrato sul cercare la propria risposta: sui volti sembra dipingersi un sorriso beffardo anziché imbarazzato, come se l’un l’altro, senza necessità di parole, si stessero scambiando una comune consapevolezza.
Finché uno rompe l’indugio:
-
“Io non mi prendo cura di nessuno. Sono un ragazzo, sono gli altri, i grandi, che si devono prendere cura di me!”.
Sarebbe già solo questa una risposta abbastanza inquietante, che lascia intendere la convinzione – senz’altro comune a queste nuove, deresponsabilizzate, generazioni – che ci sia una età - uno status, anzi - delegittimato dal dovere di cura, che appartiene invece come compito esclusivo ad altre categorie.
“Ma se non c’è un chi, c’è almeno un qualcosa di cui senti di prenderti cura?”
La risposta è assolutamente disarmante:
“Si, il mio i-phone”
Se questa fosse la reale misura, ci sarebbe davvero da preoccuparsi.
Se il comune sentimento delle nuove generazioni si riducesse ad un attaccamento alle cose materiali, ad un’idea d’affetto più vicina a quella di possesso, se il solo valore che per loro conta fosse quello economico, ci sarebbe da temere sul serio che la società di domani finirà per popolarsi di monadi, di individui sufficienti a se stessi, aridi, solitari, digiuni d’emozioni.
E non sarà stata colpa dell’isolamento, della DaD, del distanziamento sociale: queste contingenze saranno state semmai aggravanti che avranno assecondato un’indole comune già delineata, che non da’ spazio all’empatia, alla solidarietà e, soprattutto, al rispetto.
L’accidia è forse il male maggiore dei nostri tempi: non è solo pigrizia spirituale, difetto di cura; è invece vera e propria apatia morale, fredda indifferenza, cecità interiore che impedisce d’agire per il bene altrui e per quello comune. È la mancanza d’empatia, la pellicola che rende impermeabili ai problemi ed al sentire altrui, la vittoria del cinismo e dell’egoismo. È una infermità della sensibilità interiore, che rende disabili a sentirsi parte di una società di individui simili.
Se ad essa poi si somma la mancanza di entusiasmo, di ideali, di obiettivi in cui credere e per cui lottare – in una parola, l’ignavia – la sorte delle nuove generazioni appare davvero in serio pericolo.
Dovremmo allora noi per primi essere meno accidiosi ed ignavi, renderci conto del pericolo che si sta correndo, ascoltare la muta richiesta d’aiuto che i giovani ci stanno inviando perché, forse, ciò che mostrano è un atteggiamento spavaldo esibito soltanto per paura, per contrasto all’ansia d’un esame cui sentono d’essere sottoposti quotidianamente da parte delle generazioni che li precedono e che hanno riposto in loro aspettative di cui forse non si sentono all’altezza.
Dobbiamo, anzi, credere che sia così e scongiurare la possibilità che la loro arroganza, l’irriverenza, l’indifferenza siano invece un modo d’essere reale e consapevole.
Se così non fosse, sarebbe disastroso.
E saremo noi per primi responsabili se non ci saremo impegnati per impedire che il futuro sia consegnato in mano a chi avrà smarrito ogni sentimento d’umanità, preferendogli la cura per un qualsiasi oggetto privo d’anima.