Ci sono storie che serve raccontare, soprattutto se sono finite nascoste tra le pieghe della Storia (quella con la lettera maiuscola), a rischio d’essere dimenticate, se non fosse che, per la volontà e la devozione di alcuni, se ne tiene ancora accesa una flebile fiammella di memoria. E se, tra quei pochi, ci sono pure adolescenti dei giorni nostri, che di quel passato non sono stati spettatori né protagonisti, allora significa che la memoria davvero può assolvere al compito di diventare insegnamento, lezione di vita ed esempio di condotta.
Una di queste storie ha un luogo e una data ben precisa: Roma, 4 gennaio 1944.
La Seconda Guerra mondiale non era di fatto ancora finita, nonostante l’armistizio, e la capitale era occupata dai nazisti: nove mesi (dall’8 settembre 1943 al 4 giugno 1944) durante i quali innumerevoli furono gli atti di violenza perpetrati nella città, con rastrellamenti, carcerazioni, deportazioni, morte.
Quel giorno avvenne quella che ben presto sarebbe stata definita “la prima deportazione politica” di Roma: già dalla fine dell’anno precedente i collaborazionisti s’erano rivelati efficienti bracci operativi dei nazisti, al punto di intensificare le attività contro i “soggetti indesiderati” (e tali erano i comunisti, gli anarchici, i socialisti, i liberali, i resistenti, gli oppositori a vario titolo dei nazisti nonché gli ebrei e i renitenti alla leva), che venivano cercati casa per casa e reclusi nelle celle di Regina Coeli. L’operazione compiuta quel 4 gennaio dimostrò l’obbedienza immediata (e dunque la grave responsabilità storica) della polizia italiana al generale Maeltzer - comandante militare della piazza di Roma - ed ai suoi ordini di rappresaglia contro gli attentati compiuti nella capitale da una resistenza che cercava di contrastare la tirannide.
“Alle ore 20,40 di ieri dallo Scalo Tiburtino è partito treno numero 64155 diretto a Innsbruck con a bordo n. 292 individui, rastrellati tra elementi indesiderabili, i quali, ripartiti in dieci vetture, sono stati muniti di viveri per sette giorni. Il treno sarà scortato fino al Brennero da 20 Agenti di Pubblica Sicurezza ed a destinazione da un Maresciallo e 4 militari della Polizia Germanica. Durante le ultime 24 ore sono stati rastrellati dalla locale Questura, a scopo preventivo, n. 162 persone”.
Così riportava il mattinale del 5 Gennaio 1944, inviato dalla Questura di Roma al Comando di Forze di Polizia e alla Direzione Generale Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno.
“Il treno degli italiani”, come venne più tardi ribattezzato, giunse il 13 gennaio 1944 nel “campo di lavoro” (così lo definiva la propaganda nazista) di Mauthausen, “l’inferno dei vivi” (così era invece nella realtà), dopo una sosta a Dachau. Di quei 292 prigionieri deportati, prelevati dal carcere di Regina Coeli, ne arrivarono a destinazione 257: si ignora se la vita dei restanti 35 sia cessata durante quei nove giorni di viaggio dall’Italia alla Germania o nella sosta fatta nel lager di Dachau.
Tra quei deportati c’erano persone modeste, senza colpa alcuna: artigiani perlopiù e benpensanti, cittadini di quella Roma che credeva nei principi che condannavano il fascismo ed il nazismo.
E ragazzi, alcuni ancora minorenni.
Fausto Iannotti era tra questi; era un giovane “borgataro” del quartiere Pietralata, che nell’ottobre del 1943, appena 16enne, aveva partecipato con la popolazione affamata della sua borgata all’invasione del Forte di Pietralata, alla ricerca di un po’ di cibo che potesse consentire un minimo di sopravvivenza. Di lì a poco erano arrivati i paracadutisti tedeschi, che, dopo un breve conflitto a fuoco, l’avevano arrestato con un'altra ventina di uomini e imprigionato nel terzo braccio di Regina Coeli, quello tenuto sotto la giurisdizione germanica.
Il giorno dell’arrivo a Mauthausen, Fausto venne immatricolato con il n.42118 ed etichettato col triangolo rosso di politico.
Il 28 gennaio successivo venne trasferito nel sottocampo di Ebensee, dove morì il 30 aprile 1945, pochi giorni dopo la liberazione. A soli 18 anni.
A ricordarlo c’è oggi una “pietra di inciampo” in Via del Peperino, nella sua borgata. La scritta che vi è incisa replica la sequenza di tutte le sue gemelle: “Qui abitava Fausto Iannotti - nato 1927 - arrestato come politico 24.10.1943 – deportato KZ Mauthausen -morto 30.4.1945 Ebensee”.
Il 27 gennaio, il Giorno della Memoria, è appena trascorso, con tutte le sue commemorazioni e le sue cerimonie, in cui si riattiva prepotentemente la sollecitazione a non dimenticare. Un’esigenza che troppo spesso viene, viceversa, tradita da comportamenti che di fatto denotano un’indifferenza totale nei confronti dei moniti della Storia, forse perché ormai troppo lontani, troppo sfumati o anche troppo sfruttati senza mai essere realmente compresi.
Capita perciò che adolescenti d’oggi – cui si guarda con preoccupazione come agli uomini e alle donne di domani – dimostrino di non aver affatto tratto insegnamento dalle lezioni del passato, replicando anzi ignobilmente i comportamenti invisi di chi, in un preciso momento della Storia, ha contribuito a scriverne una delle pagine più vergognose.
“Inginocchiati ebreo di merda!” “Devi morire nei forni”: le parole di due quindicenni rivolte ad un ragazzino di soli dodici anni, contro cui inveiscono anche con calci e sputi, atterriscono, lasciano chiunque di noi incredulo e senza parole; e lasciano senza lacrime un padre che stenta ad accettare che, in contesti sociali che vantano conquiste di civiltà e anche, più semplicemente, tra civilizzate pareti domestiche, il discrimine sia ancora un’eredità e un credo da tramandarsi.
Non si giustificano azioni del genere, tanto più laddove il dubbio sia che scaturiscano dalla necessità - sempre più impellente tra i giovani - di accaparrarsi consensi virtuali con stolte prodezze spacciate per audacia, calate in quel mare di imbecillità dove pesca la rete d’altrettanti idioti.
C’è, però, anche la consolazione che giunge da chi dimostra di averla invece ben chiara la lezione della Storia e di volerne essere continuatore, veicolo di conservazione oltre la memoria narrata da quei pochi, ormai anziani, superstiti scampati ad uno sterminio che tra pochi anni non avrà più testimoni diretti.
Adolescenti com’era Fausto - a dispetto del coraggio adulto e della maturità con cui ha affrontato il suo destino – studenti d’un liceo romano del quartiere di borgata che un tempo è stato il suo, “inciampati” nella sua “storia nella Storia”, fermatisi a raccoglierne il messaggio: quell’esortazione potente a difendere l’identità e la libertà d’ogni essere umano, senza bandiere e senza confini.
Hanno perciò voluto raccontarla, interpretandola come se ognuno di loro fosse Fausto, Sami, Liliana o chiunque altro abbia avuto tatuato nell’anima oltre che sulla pelle il dolore e l’umiliazione inferti da chi ha preso a calci e sputi la loro dignità.
E l’hanno proiettata su un muro, tra le case di quel quartiere, in un freddo pomeriggio di gennaio in cui la Memoria diventa solennità istituzionale ma che, nelle loro menti, è già diventata consapevolezza.