“Mi chiamo Alessio Guidotti, ho 21 anni, abito a Milano, nel quartiere Barona, e lavoro nei catering di San Siro”
Inizia così la videointervista rilasciata dal giovane che, qualche settimana fa, ha fatto invasione di campo durante il derby Inter-Milan, a San Siro, a dieci minuti dalla fine dell’incontro.
Di lui i media si sono occupati per pochi giorni, rimandando le immagini della sua corsa a bordo campo mentre lancia baci al pubblico e schiva gli steward, proponendole perlopiù come una bravata o il gesto di un esibizionista, lasciando così decantare l’episodio che, ad oggi, effettivamente già nessuno ricorda.
Ciò che invece realmente c’era dietro quell’azione apparentemente folle è sfuggito ai più, dacché ben poca risonanza vi è stata data al di fuori del mondo sportivo – quello politico ed istituzionale, in particolare - dove invece ci sarebbe stata la necessità di dedicargli una maggiore attenzione.
È stato lo stesso Alessio, in quell’intervista, a spiegare le ragioni di ciò che ha fatto e l’ha raccontato con una semplicità e con nota di malinconia appena accennata che ben celavano un’amarezza ed una umiliazione molto più profonde.
Quel giorno Alessio era al lavoro nel ristorante dello stadio; portava a tavola i piatti ai clienti poco prima dell’inizio della partita. Nel momento in cui le squadre stavano entrando in campo, si è fermato pochi secondi a guardarle attraverso la vetrata del locale. Prontamente un ragazzo – che immagino potesse avere poco più della sua età, ma che evidentemente godeva di uno status tale da legittimare la sua prosopopea – lo ha richiamato ai suoi doveri così appuntandolo: “Sei qui per servire, non per non per distrarti e guardare la partita. Quando è che ci porti i piatti?”.
Le parole di Alessio a questo punto del racconto sono diventate più gravi, pesanti come macigni sulla coscienza di chi è in grado di comprenderne la durezza e, soprattutto, il sostrato di rabbia e dolore che vi è sotteso: “Mi sono sentito uno schiavo. Nessuno ha diritto di dirti quello che sei, mai pensare di essere meno di qualcun altro solo perché stai servendo un piatto o perché stai portando qualcosa a qualcuno. Siamo tutti così e ci vuole rispetto reciproco, sennò la società non va avanti. E invece mi hanno fatto sentire come quello che sono alla fine: uno degli ultimi che serve uno dei primi”.
Su quelle parole è rimasto a rimuginarci per tutto il pomeriggio Alessio, finché, quando il derby stava ormai per giungere al termine, si è tolto la cravatta – il simbolo della sua schiavitù – ed è sceso verso il campo, deciso a diventare giocatore per un minuto nella partita per la difesa della sua dignità.
La sua invasione di campo è stato un gesto di protesta, un simbolico modo di infrangere quelle regole che se trovano applicazione con rigore nei contesti più disparati - e ludici in particolare - non altrettanto accade quando in gioco ci siano le necessità, i valori ed i diritti, primo tra tutti quello al lavoro ed alla pari dignità sociale, che va riconosciuta anche a chi, nel carrozzone delle vere o presunte priorità, occupa il posto dell’ultima ruota.
“La cazzata l’ho fatta, ho sbagliato” – ha ammesso candidamente Alessio – “ma l’ho fatto per una cosa importante. Era una protesta per il lavoro precario di giovani come noi che lavorano per pochi soldi, per contratti di poca durata e quando questi finiscono non sai cosa fai e se ti prendono, e quindi non sei mai tutelato. Otto euro all’ora, però sono sei ore per tre quattro giorni al mese per tre mesi di contratto. Qua a Milano la vita costa e se non lavori cosa fai? Io abito nelle case popolari con mia madre e dobbiamo darci da fare per tirare avanti, non è un gioco.”
Ad Alessio non è importato più di tanto che sia stato “placcato in malo modo, anche con un mata leao”, che l’abbiano picchiato, colpito con pugni e persino stretto i genitali, benché abbia deciso di rispondere con una denuncia per aggressione a quella per invasione di campo ed al Daspo che gli è stato comminato per cinque anni.
Ciò che per lui più contava era che il messaggio contenuto nel suo gesto raggiungesse almeno altrettante coscienze quant’era il numero degli spettatori che, sul campo o da casa, assistevano all’incontro.
Anche se ha dovuto spiegarlo lui stesso, senza peraltro arrivare dov’era più importante che arrivasse e senza riuscire ad impedire che il suo racconto finisse per coniugarsi troppo presto al tempo passato.