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L’ultimo giorno di scuola

Autore: Ester Annetta
Il caldo eccessivo di questo inizio di giugno si è fatto portatore di un anticipo d’estate che ha reso ancora più faticosa la conclusione dell’anno scolastico.

Tra le interrogazioni di chi è arrivato in extremis a recuperare pregiudizievoli insufficienze e la corsa a concludere gli argomenti finali previsti dal programma, le ultime settimane sono state un concentrato di spiegazioni, ripassi, verifiche, valutazioni e improvvise prese di coscienza di chi, nell’intento di ribaltare un esito scontato, ha provato a recuperare il possibile.

Infine è arrivato quell’ultimo, attesissimo giorno, oltre il quale non è più consentito altro rimando ad “una prossima volta” che non sia quella d’un recupero di debito a settembre. I giochi sono ormai stati fatti e con una salvifica amnistia finale, le carenze meno gravi si sono magicamente trasformate in sufficienze appena accennate. All’insaputa dei ragazzi, ovviamente, perché è utile che il dubbio di non averla scampata resti fino al giorno “dei quadri”, nell’intento che serva da monito a non sottovalutare, in futuro, tempo e impegno.

L’aria è ormai di festa, complice quel ponte lungo dello scorso week end che ha contribuito ad avviare anzitempo la “modalità vacanza”. E difatti gli studenti sfoggiano già tenute da spiaggia, talvolta anche troppo azzardate: le ragazze perlopiù top minimalisti che lasciano scoperte pancia o spalle; un po’ meno minigonne e shorts, in ottemperanza forzata ad un regolamento che tante altre volte fingono invece di non conoscere. I ragazzi, calzoncini corti o canottiere che mettono in evidenza un campionario di fisici variabili dall’acerbo-sgraziato al palestrato, passando per bicipiti e quadricipiti da calciatore.

Conosco tutti i loro volti, intercettati nella loro interezza oltre lo schermo della mascherina che, anche in vigenza di precise disposizioni, spessissimo hanno tenuto sotto il mento. Ne ho imparato i sorrisi, ne riconosco le espressioni di tensione e di preoccupazione, quelle di rabbia o di soddisfazione.

Di ognuno ho appreso le storie, quelle narrate e quelle destinate alla riservatezza accessibile ai soli che dovranno tenerne conto per formulare valutazioni stemperate.

Di chi ho compreso il dramma non espresso, sono stata consolatrice; di chi ha scoperto il fianco non per essere colpito ma per essere avvolto in un’imbracatura di salvataggio, sono stata confidente; di chi ha avuto bisogno di trovare percorsi e sentieri, sono stata guida; di chi mi ha chiesto consiglio, sono stata madre, sorella, amica.

Oggi li osservo e ripercorro mentalmente il loro cammino: chi erano all’inizio di questo primo anno di scuole superiori, quali resistenze avevano, quali paure.

Li rivedo tutti cambiati, cresciuti, diversi, e non solo perché è apparsa un po’ di peluria sul viso o è cambiato un timbro di voce o si sono modellate curve e linee gentili.

Sono nate amicizie con tracce di solidità e sono sbocciati amori fugaci; sono sorte alleanze, complicità, intese, in assenza di fazioni e di conflitti; sono state create collaborazioni e relazioni d’aiuto che hanno incluso anche i compagni con difficoltà o disabilità, senza che mai la loro condizione abbia rappresentato un’etichetta, un ostacolo o un pregiudizio.

Ho percepito l’efficacia del mio lavoro, la capacità d’essere stata d’utilità diffusa, la consapevolezza d’aver raggiunto i bisogni di tutti, quelli evidenti e quelli meno scoperti, perché “il sostegno” non è decretato affatto da una certificazione che ne attesti la necessità, ma dalla concreta difficoltà che anche uno stato emotivo, una preoccupazione, una piega caratteriale, una situazione familiare complessa possono determinare.
Soprattutto, avvicinandomi alle loro necessità, alle loro richieste espresse o inespresse ed alle loro anime, ho imparato anch’io, invertendo il canone insegnamento-apprendimento per diventare a mia volta discepola, in un scambio di dare e avere che è stato di vantaggio e arricchimento reciproco.

Mutuo le parole di Don Ciotti, che nel suo “La speranza non è in vendita” ha espresso un’idea che, per chi ha scelto il complicato e bellissimo mestiere di insegnare è un autentico fondamento: “Come, infatti, la responsabilità non smette di chiamarci in causa, così la conoscenza non cessa di voler conoscere. Anzi più conosce, più profondo e ampio si fa il suo sguardo, maggiore è il sentimento del proprio limite. Quando è davvero autentica, la conoscenza si sente piccola di fronte alla complessità dei processi sociali. Piccola, soprattutto, di fronte ai volti e alla storia delle persone, alla loro irriducibile singolarità. Di qui l’importanza di formarci per essere cittadini, l’impegno continuo in un’educazione al bene comune. È una conquista quotidiana, un percorso che non perde mai di vista il cambiamento, che si aggiorna e si concretizza per essere credibile di fronte agli occhi dei ragazzi. Per questo dobbiamo augurarci tutti - e noi adulti per primi - di essere analfabeti. Quell’analfabetismo che non ci fa mai sentire arrivati, chiusi in illusorie certezze, ma disponibili allo stupore da cui nasce prepotente il bisogno di capire.”
Insegnare è conoscenza, che matura con l’impegno, la volontà, la vocazione.

È la semina del contadino, la sua speranza in una buona annata, la sua attesa di veder germogliare e crescere quanto raccoglierà.

Ed ogni anno di scuola – non solo quello istituzionalizzato, imposto, per il passaggio al ruolo – è “un anno di prova”, in cui si apprendono e si sperimentano conoscenze ma, soprattutto, empatia ed umanità.

E perciò, se l’ultimo giorno di scuola un lungo, sentito e caloroso applauso mi ha accompagnato all’uscita dall’aula liberando quelle lacrime fino ad allora trattenute, è segno che la stagione ha dato i suoi frutti.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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