Ormai lontanissimo dal cabaret degli esordi di Epifanio e Alex Drastico e dalla comicità di personaggi geniali come Cetto La Qualunque – che, rimbalzando tra sarcasmo e ironia, sapevano ricadere su penose verità – Antonio Albanese consacra il suo straordinario talento e le sue eccezionali attitudini drammatiche in un film profondo e commovente. “Grazie ragazzi” – la pellicola di cui è protagonista, diretta da Riccardo Milani (il cui connubio con Albanese risale a “Come un gatto in tangenziale” e al suo sequel) è una storia che tende un inatteso agguato all’anima e alla coscienza, coinvolgendo inevitabilmente lo spettatore con spunti, riflessioni e note di autenticità che non possono lasciare indifferenti.
Il tema non è affatto nuovo; sembra anzi riprendere – come a riceverne il testimone – il filo intessuto da un degno precedente, quel «Cesare deve morire» diretto nel 2012 dai fratelli Taviani, dove pure centrale è il tema del teatro come strumento di riscatto dei reietti e di evasione fantastica da una realtà che è invece costretta dalle sbarre di una prigione.
Qui però c’è meno documentario e più racconto, ma senza che per questo si sminuisca il significato e la portata del messaggio che, anzi, forse diventa ancora più credibile perché rapportato alla realtà delle nostre carceri – con i loro abusi e soprusi – ed alle vite “accantonate” dei protagonisti carcerati, quelle che sono fuori dalle mura della prigione, di cui si intravedono frammenti abilmente incastrati nella trama del racconto principale.
Antonio Cerami (Albanese) – attore in declino, costretto per vivere a doppiare film porno e a condurre una vita mesta e solitaria – si ritrova a condurre un laboratorio teatrale con alcuni reclusi del carcere di Velletri. È l’”opportunità” che gli ha ceduto un suo amico – attore con miglior fortuna – che l’ha scartata per superbia e vanità.
E tale davvero si rivela, e non perché ne derivino denaro o prestigio, ma perché finisce per restituire ad Antonio il senso e la passione del suo essere attore, quelli veri e disinteressati che lo avevano animato agli inizi, quando il teatro sembrava davvero poesia, vita, libertà. E, soprattutto, strumento per scandagliare l’animo umano e rivelarne le profondità.
È un percorso che Antonio compie insieme ai suoi “ragazzi”, a quegli avanzi di galera con un passato ordinario che ad un tratto si è inceppato e li ha fatti precipitare, giù, nel vuoto assurdo d’un presente senza colori, aria e luce, dove tutto il tempo è scandito dall’attesa: l’attesa dell’ora d’aria, l’attesa del giorno di colloqui, l’attesa del mattino e poi della notte, l’attesa della libertà.
Chi, allora, meglio di loro può essere capace di rappresentare “Aspettando Godot”, l’opera beckettiana - simbolo del teatro dell’assurdo, fatto di situazioni insensate e dialoghi sconnessi - incentrata, appunto, sull’attesa - simbolica a sua volta - di un personaggio che non arriverà mai! Vladimiro ed Estragone aspettano Godot sotto un albero spoglio; si lamentano della loro condizione, litigano, pensano di suicidarsi ma non possono fare a meno di restare uniti nella comune attesa, che, più che d’un qualcuno, è infine di un qualcosa che possa dar significato alla propria vita, salvarla dalla disperazione e dal non senso dell’esistere. La stessa attesa d’ogni vivente.
Gli altri due personaggi del dramma, Pozzo e Lucky, incarnano a loro volta un altro modello, un altro campionario di esistenza: quello che, in ogni epoca, in ogni momento, rappresenta le contrapposte categorie dei padroni e dei servi. Nulla di più attuale.
Attraverso i personaggi del dramma e, più in generale, attraverso il teatro ecco allora che tanto i detenuti quanto il loro maestro riacquistano la consapevolezza dapprima di sé e poi dell’esser parte di un’unica fratellanza: quell’umanità accomunata dalle medesime fragilità, debolezze, necessità.
“Non perdiamo tempo in chiacchiere inutili. Facciamo qualcosa mentre l'occasione si presenta! Non succede tutti i giorni che qualcuno abbia bisogno di noi. A dire il vero, non è che abbia bisogno precisamente di noi. Chiunque altro andrebbe bene, per lui, se non meglio. L'invocazione che abbiamo sentita è rivolta piuttosto all'intera umanità. Ma qui, in questo momento, l'umanità siamo noi, ci piaccia o non ci piaccia.”
Così esorta Vladimiro, ed in queste parole è racchiuso il nucleo del dramma di Beckett che diventa tutt’uno con quello del film: la consapevolezza recuperata e piena del vicendevole bisogno, tutto umano, di potersi fidare ed affidare; la ricerca irrinunciabile d’un mezzo che frantumi la barriera della solitudine e dell’emarginazione - di qualunque natura essa sia – e restituisca quella libertà cui lo spirito può anelare anche dietro le sbarre d’una prigione.
L’arte e la vita allora possono integrarsi; ed è questa la scoperta che convince i “ragazzi” della valenza di ciò che stanno facendo: l’arte diventa il loro legame con quel mondo di fuori che hanno perduto ed al quale desiderano ora di poter dimostrare un altro volto di sé, ripulito dall’etichetta che le loro azioni hanno impresso; l’arte come verità, rinascita; redenzione, rivincita sulle umiliazioni; l’arte come certezza d’un sé profondo finalmente esposto alla luce, guerriera che sconfigge le paure che fanno balbettare e ridona quel coraggio pulito che non vacilla di fronte al disprezzo altrui. L’arte come libertà.
Su tutto, la lezione del teatro che quest’arte la dimostra. E dunque la riscoperta del mestiere dell’attore, che, quando sulle tavole d’un palco (o su uno schermo) porta cuore e anima, sa far vedere e sentire, e perciò commuovere ed emozionare.
Grazie ragazzi.