Ci sono storie che meriterebbero di essere conosciute ben oltre i ristretti confini dei luoghi in cui accadono; che dovrebbero diventare esemplari di condotte nelle quali coraggio, volontà e resilienza prevalgono sul pregiudizio e sul disfattismo; che valgono a dimostrare margini di possibilità ben più ampi di quelli che inerzia o resa incondizionata tenderebbero ad ipotizzare e che, con il loro spicciolo pragmatismo, si pongono persino in efficace contrasto a pericolosi e nocivi negazionismi.
Quella di Yacouba Sawadogo è una di queste storie.
Per raccontarla è necessario partire da una premessa che contestualizza non soltanto lo Stato dove accade – il Burkina Faso – ma, in misura più ampia, la drammatica situazione di una delle zone del mondo tra le più minacciate dai cambiamenti climatici: il Sahel o “bordo del deserto", la fascia di territorio posta al di sotto del deserto del Sahara.
Si tratta di un'area ad alto tasso di desertificazione: la siccità quasi perenne e la conseguente mancanza d’acqua seccano la terra a tal punto che essa, sotto l’azione erosiva del vento, si sgretola minutamente, trasformandosi in sabbia, mentre quella che resiste è talmente compatta e dura che impedisce ai germogli di perforarla.
Già nel 1972 il Sahel era stato colpito da una gravissima carestia, conseguente ad una serie di raccolti negativi consecutivi che aveva mandato in crisi l’agricoltura (unica risorsa del paese, nonostante la siccità) e distrutto quasi integralmente il patrimonio zootecnico. Numerosissime erano state le morti per fame, che, insieme ad una ingente migrazione verso sud, avevano spopolato pesantemente il territorio.
Ma Yacouba non aveva voluto sapere d’andarsene. Aveva anzi deciso di portare avanti una singolare lotta. Del resto aveva da tempo deluso le aspettative dei genitori che avrebbero voluto farne un Imam, giacché del Corano non aveva imparato granché, se non un’antica tecnica di coltivazione che gli sarebbe tornata utile per ciò che aveva in mente di fare: il contadino.
In questo modo avrebbe fermato l’avanzare del deserto.
Lo Zaï – questo è il nome della tecnica – consiste nello scavare buche nel terreno secco riempendole poi con una mistura di foglie morte, legnetti, sassi, spazzatura che, trattenendo l’acqua, favoriscono il rigenerarsi della terra. Yacouba aveva pensato di allargare le buche e di ricoprirle, oltre che di quel materiale, anche di letame per attirare le termiti che, scavando cunicoli, avrebbero consentito al terreno di trattenere meglio l'umidità e, digerendo il letame, di rimineralizzarlo. In quelle buche aveva quindi cominciato a piantare miglio, sorgo, sesamo e anche alberi, le cui foglie cadute avrebbero continuato a concimare il suolo.
Ha continuato così per decenni, nonostante nessuno gli desse appoggio e fosse, anzi, deriso dalle autorità dei villaggi intorno. Stagione dopo stagione, lavorando incessantemente, quell’uomo caparbio e saggio ha infine realizzato una foresta di 40 ettari, chiaramente visibile dalle immagini satellitari e ora chiamata “Bangr-Raaga”, che vuol dire "Foresta della Saggezza".
Non si conosce di preciso l’età di Yacouba, poiché conta i suoi anni sulla base dei raccolti agricoli; ma dovrebbe avere circa ottant’anni e, benché abbia intanto ottenuto prestigiosi riconoscimenti, tra cui il Right Livelihood Award nel 2018 e il titolo di “Campione della terra” conferitogli dal Programma dell’Onu per l’ambiente nel 2020, continua a portare avanti la sua battaglia, sostenuto ora da suo figlio, divenuto la sua voce e la sua propaganda.
Non smette di lottare perché la sua lezione pare essere stata già dimenticata.
La terra che tanto faticosamente ha salvato dal deserto rischia di essere nuovamente minacciata dalla sabbia. E stavolta è l’uomo a guidarne l’avanzata, con le sue sciagurate azioni di militarizzazione del territorio, estrattivismo, espansione di città che progressivamente minacciano la sua foresta. Su tutto, l’ombra sempre incombente della siccità, non più calamità squisitamente naturale ma anch’essa conseguenza della sciagurata condotta umana, responsabile dell’innesco di cambiamenti climatici che proprio in quei territori minacciano i danni maggiori.
Yacouba ha speso la sua vita a piantare alberi, a dare una speranza alla sua terra ed alla sua gente, per non lasciarle preda della miseria, dell’abbandono, dei traffici illeciti di cui la povertà rende inevitabilmente vittime.
Ed è perciò inaccettabile che il suo esempio di resistenza e speranza sia annientato dall’avanzata di minacce - di matrice fondamentalmente umana - che i governi del mondo non sono all’altezza di contrastare.
È il triste destino della “Foresta della Speranza”, ma anche di ogni altro angolo di Terra che, in un futuro non troppo lontano, verrà sgretolato dall’aridità naturale, conseguenza diretta di quella umana.