Non ho assistito all’esame di maturità del mio primogenito, non mi ha voluto. Era circa sette anni fa. Ricordo che la mattina dell’orale sono andata comunque al suo liceo, a sua insaputa, sperando di poter intrufolarmi in aula all’ultimo momento, alle sue spalle. Il caso ha voluto, però - con un tempismo ineccepibile - che ci incrociassimo nell’atrio della scuola e così sono stata malamente invitata a tornarmene a casa.
Nemmeno ho potuto assistere all’esame del mio secondogenito, uno dei tanti maturati della pandemia che solo il giorno della prova, dopo mesi di DAD, ha fatto ritorno a scuola in presenza, col permesso di farsi scortare da un solo accompagnatore. Nel suo caso la scelta è ricaduta sul fratello: scegliere tra me e il padre era fuori discussione.
Dalla mia prova di maturità, dunque, datata ormai a poco meno di quarant’anni fa, l’agitazione “sul campo” (ansia, si dice oggi) non avevo più avuto modo di riviverla né di condividerla.
Fino a martedì scorso.
Giovanni è uno studente di istituto tecnico-informatico, una di quelle scuole che - in un immaginario collettivo probabilmente ancorato tuttora all’ideologia gentiliana – si considera cadetta (mentre, invece, a chi, come me, ha avuto occasione di varcare la soglia del pregiudizio, può rivelare un valore altamente efficace e formativo). Gli sono stata “assegnata”, come insegnate di sostegno, quattro anni fa, quando frequentava la seconda classe, con l’avvertimento che si trattava di un ragazzo difficile.
Il suo disturbo si classifica con un sigla apparentemente incomprensibile, ADHD, che altro non è che il disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività. Sostanzialmente è un difetto di autocontrollo, che comporta difficoltà di attenzione e concentrazione, di regolazione degli impulsi e del livello di attività (con episodi, spesso, di ribellione ed escandescenze), cui consegue, di fatto, difficoltà di apprendimento, pur in assenza di condizioni di ritardo cognitivo. In più Giovanni presenta marcati tratti di oppositività/provocatorietà, per cui, nell’approcciarlo, l’aspetto più problematico consiste nell’individuare la modalità più idonea a evitare che si inneschi una reazione di contrasto e di rifiuto delle richieste, cui solitamente si accompagna una chiusura totale e, dunque, il fallimento di ogni strumento comunicativo.
Conoscerlo, comprenderlo, imparare a capire il suo modo di essere ed elaborare le strategie più adatte a creare l’empatia necessaria a rendere possibile un dialogo, prima, ed un proficuo lavoro, poi, è stato difficile e faticoso. Il suo rifiuto iniziale di una figura che, probabilmente, considerava alla stregua di un inquisitore o di un “guardiano” e nei cui confronti era estremamente diffidente e respingente, è stato l’ostacolo maggiore da superare, tanto più che la mia esperienza col mondo della disabilità, in quel momento, aveva un attivo nullo.
È stato un percorso lento e lungo, attraverso cui abbiamo reciprocamente imparato a prendere le misure l’una dell’altro, a studiarci, a conoscerci.
La bellezza di un compito che mi ero trovata a svolgere quasi per caso ha iniziato, con Giovanni, a definire i suoi contorni, rendendomi ad ogni successo, ad ogni passo aggiunto che mi consentiva di avvicinarmi a lui, una gioia ed una soddisfazione al cui confronto ogni altro mio traguardo personale conseguito altrove sembrava scolorire.
In quattro anni, il lavoro realizzato con Giovanni ha finito per essere - come poi ho capito era giusto che fosse – non solo di natura didattica: è cresciuto in uno spazio di fiducia, complicità e solidarietà dove, oltre al “dovere scolastico”, si è insinuata una relazione umana, profonda ed appagante, in cui il “supporto all’apprendimento” è stato vicendevole. Non si è trattato solo di guidare un percorso verso la conoscenza della discipline scolastiche ma di sviluppare ed affinare tanti altri aspetti: dall’autonomia all’autostima; dall’abbattimento della diffidenza e della paura d’essere escluso all’intesa ed alla relazione con i coetanei e con gli adulti; dalla distanza alla vicinanza; dall’essere “tra” gli altri all’essere “con” gli altri. Dal canto mio, ho schiuso la mia conoscenza ad un mondo – quello della disabilità e del disagio – meravigliosamente costruttivo, una palestra di umanità in cui è possibile abbattere barriere (mentali anzitutto) e costruire solidi ponti di appartenenza ed inclusione.
Ho visto Giovanni schiudere il suo bozzolo, trasformarsi da bambino in adolescente per poi spostarsi su quella conradiana “linea d’ombra” da cui il passo all’età adulta è ormai breve.
Ho visto me stessa subire un’eguale metamorfosi, smettere i panni d’un'unica figura per diventare tante figure insieme, ugualmente necessarie, ugualmente importanti, sia che si trattasse di muovere un rimprovero per un compito non fatto che di aggiungere una lode o un complimento alla coppa conquistata in una gara di ballo.
Danza, Giovanni. Si muove morbido ed elastico nei passi dei balli caraibici, quelli che più d’ogni altro consentono all’anima d’esprimersi attraverso il corpo, convogliando le disordinate energie in esubero in un movimento armonioso e misurato, come se la pista fosse una diversa dimensione in cui rabbia, paura e senso d’inadeguatezza scompaiono d’incanto.
Ha ripreso finalmente a danzare in questi ultimi mesi, quando il laccio delle norme di contrasto alla pandemia si è allentato, permettendogli così di uscire da quel forzato isolamento che tanto male aveva fatto alla sua già naturale tendenza a restare ai margini, l’eredità lasciatagli da un passato in cui le intemperanze e le esuberanze legate al suo disturbo l’avevano relegato, nella convinzione che ignorare o non assecondare le sue condotte bastasse a deviarle verso modelli più corretti.
Gli è così tornato quel sorriso sghembo che tanto lo caratterizza; il suo sguardo ha ripreso vitalità, pur continuando a rimanere racchiuso nella cornice di un piccolo riquadro sullo schermo del pc fino all’ultimo atto della DAD.
Poi sono iniziati gli “allenamenti” – come li chiama lui – per l’esame di maturità: l’elaborato sulle materie d’indirizzo, i collegamenti con le altre materie oggetto della prova, i power point con la mappa degli argomenti, l’educazione civica, il PCTO. Il suo timore maggiore era l’ammissione, consapevole che, una volta ottenuta quella, l’esame sarebbe stato “una passeggiata” e, dunque, avrebbe pure potuto studiare poco e niente.
La fatica principale è stata allora proprio quella di convincerlo che quel colloquio di un’ora circa in cui avrebbe dovuto dimostrare, più che il suo sapere, la sua “maturità”, non andava sottovalutato.
“Il pregiudizio nasce dall’ignoranza. Perciò la povera gente del posto credeva che Rosso Malpelo fosse un cattivo ragazzo solo perché aveva i capelli rossi.”
“Le equazioni differenziali si possono usare per calcolare l’andamento d’una curva, per esempio quella del contagio del Covid…”
“A database is….”
“La Notte dei Cristalli fu chiamata così perché quella notte tutte le vetrine dei negozi degli ebrei vennero distrutte a andarono in frantumi…”
Ed eccolo il giorno dell’esame.
Giovanni è arrivato con quel suo tipico sorriso che so riconoscere anche dietro la mascherina. Sembrava tranquillo, ma lo conosco ormai talmente bene che sapevo che era tutt’altro il suo reale stato d’animo. Anch’io ho provato a dissimulare la mia agitazione, che non era da meno della sua.
Poi tutto è accaduto rapidamente, quasi senza dare il tempo di metterlo a fuoco: “Il candidato può entrare” ha annunciato il Presidente di commissione affacciandosi alla porta dell’aula d’esame. Ha fatto un cenno anche a me, ammessa per quel solo alunno a sedere tra gli altri commissari. “Prego professoressa, conduca lei l’esame”.
Non ero preparata a questo, e per vincere l’iniziale disorientamento mi sono ripetuta che altro non avrei dovuto fare che guidare Giovanni lungo lo stesso percorso che durante “l’allenamento” avevamo simulato tante volte. Forse aveva ragione lui: così sarebbe stata “una passeggiata”.
E difatti è rimasto perfettamente a suo agio: nessuna incertezza, nessuna tensione; si è espresso con una sicurezza ed una fluidità di termini che a tratti quasi mi ha sorpreso. Sorrideva ad ogni nuova domanda che per lui, in realtà, nuova non era, accompagnando l’esordio della risposta con un gesto della mano o un movimento del corpo che avevano un che di teatrale.
L’esame è scorso facile; per Giovanni è stato come seguire un copione che conosceva bene e da cui non si aspettava alcun colpo di scena. Verso la fine, però, sono stata io a decidere di aggiungere qualcosa a quel modello preconfezionato, affinché il senso di quella prova, della “maturità” che Giovanni era chiamato a dimostrare non gli scivolasse addosso e si apprendesse alla sua coscienza e ai suoi ricordi.
“Hai parlato dello sterminio degli ebrei, descrivendomi molto bene gli abusi e le torture cui furono sottoposti. Si vede che hai approfondito molto l’argomento. Dimmi allora, Giovanni, cosa ti è rimasto di tutto quello che hai appreso in proposito?”
Giovanni ha abbassato lo sguardo, restando in silenzio. Per un attimo ho temuto di aver osato troppo, di averlo messo in difficoltà. Stavo per congedarlo con un “Non importa, va bene così” quando invece, tornando a guardarmi, ha risposto: “Forse qui non mi è rimasto molto” - indicando con l’indice la testa – “ma qui, invece, mi è rimasto tanto”, e si è messo la mano sul cuore.
In quel momento sono stata, in una, compagna di banco, sorella e madre di Giovanni, spettatrice e giudice della sua più autentica e coraggiosa prova di crescita e di consapevolezza.
Insieme abbiamo superato il “nostro” esame.
Va ora nel mondo, Giovanni, lasciandoti guidare sempre da quel tuo bel cuore, ché spesso ha molte più parole e risposte di quante non sia in grado di suggerirtene la ragione.
Buona vita, ragazzo mio.
Ti conservo in un angolo luminoso della mia anima. Felice e libero, come quando danzi.