L’hanno chiamata “tregua” e non “cessate il fuoco”, perché doveva essere ben chiaro che non ci fosse nulla di definitivo.
La differenza è enorme, ha tenuto a precisare il ministro israeliano degli Esteri, Eli Cohen: Israele si è impegnata unicamente ad acconsentire ad una “pausa” delle ostilità di quattro giorni, al solo scopo di permettere la liberazione di alcuni ostaggi ed il passaggio degli aiuti umanitari.
A sottolineare ulteriormente il concetto, ci ha poi pensato anche il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant, dichiarando espressamente, a scanso di qualunque equivoco, che, terminata la tregua, “riprenderemo con forza le operazioni”. Quelle militari, ovvio, giacché l’obiettivo – e questo pure l’ha detto lo stesso ministro - rimane distruggere Hamas e fare in modo che la Striscia di Gaza non costituisca più una minaccia per Israele.
Forte e chiaro.
La prima cosa che è venuta da domandarmi leggendo queste affermazioni (mentre scrivo la tregua non è ancora iniziata) è stata a chi fossero davvero dirette.
La risposta immediata poteva essere anche quella più scontata: il governo di Israele sta ammonendo chiaramente Hamas, l’avversario diretto con cui ha patteggiato lo scambio dei prigionieri, in un rapporto sbilanciato - uno a tre - che sottilmente rimarca il diverso valore che viene attribuito a individui appartenenti a due diverse etnie. La vita di un israeliano barattata con quella di tre palestinesi; 50 degli uni valgono 150 degli altri.
Risposta convincente, dopotutto, se considerata nella cornice dei negoziati segreti svoltisi per settimane al fine di raggiungere proprio questo accordo.
Meschino e cinico pensare, invece, che il monito fosse diretto alla popolazione civile palestinese martoriata, privata ormai di tutto – dalla casa agli affetti – che non rappresenta di certo una minaccia ma è piuttosto l’unica, reale, vittima di un’autentica vendetta senza misura.
Poi, però, si è fatta strada un’altra idea: quella che mi ha indotto a pensare che questa guerra, così come quella tra Russia e Ucraina, ha in fondo anche il sinistro scopo di far leva su una partecipazione mondiale agli accadimenti. Partecipazione non armata, si intende, ma invocata sul terreno della tensione, ove non su quello della mediazione e del sostegno. È come se il conflitto coinvolgesse non soltanto due popoli o due Stati ma pendesse come un anatema sulla sicurezza mondiale e fungesse da leva per destabilizzare altri equilibri. Il risultato più evidente è un protagonismo che assorbe ogni canale d’informazione oltre che l’agenda dei vari organismi internazionali.
Quell’avvertimento, dunque, è a tutti gli altri Stati – comparse o spettatori che siano – che era diretto.
Del resto, a ben vedere, il copione è lo stesso che ha tenuto sulla ribalta la guerra russo-ucraina, finché non è arrivata ad invadere la scena quella israelo-palestinese. Per mesi è stata la preoccupazione maggiore dell’Occidente, l’argomento più presente e scottante nelle cronache politiche e nei notiziari.
Poi, le bandiere del conflitto sono diventate altre e, messa all’angolo, la guerra di Putin è diventata quasi una notizia di fondo, ha perso “il suo appeal” e ha cessato di rappresentare quella potente minaccia su cui la Russia aveva fino ad allora puntato per tenere in scacco l’Europa intera.
Perciò fa ora sorridere Putin, col suo patetico tentativo di riportare l’attenzione verso di sé dichiarando in videoconferenza ad un G20 virtuale (che i più grandi hanno invece disertato, ed anche questo è un segnale) che “la Russia non ha mai rifiutato i colloqui di pace su Kiev”; “la Russia è pronta ai colloqui di pace perché occorre mettere fine alla tragedia in Ucraina”.
E’ grottesco, si; quasi si potrebbe scorgere in sottopancia alle sue affermazioni un sottotitolo che - se fosse tutto un gioco – suonerebbe come la protesta infantile del bambino che abbandona il giocattolo di cui si è a lungo fatto vanto con gli altri quando ha smesso di attrarli.
Tuttavia, bisogna superare l’apparenza e scavalcare la rozzezza della forma – tanto delle dichiarazioni dei ministri israeliani che del fantasioso zar – ed avere la lucidità sufficiente a riuscire a vedere anche il buono della sostanza. Ed è che, a prescindere dalla temporaneità (nel primo caso) e dalla tempistica (nel secondo), ciò che è stato fatto e detto apre importanti spiragli nella direzione più sperata: quella di un terreno di incontro su cui, con i mattoni del dialogo, pare forse possibile edificare qualcosa di più solido e duraturo di una breve tregua.