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Le affinità “elettive”

Autore: Ester Annetta
Con un’ardita parafrasi, il titolo del noto romanzo di Goethe torna utile a sintetizzare accadimenti che, a distanza di due anni esatti l’uno dall’altro, sembrano riproporre un medesimo copione, giacché – come i più sono portati a pensare - la regia che li ha diretti è riconducibile a due personaggi la cui “affinità” potrebbe rintracciarsi nella comune incapacità di saper accettare la sconfitta elettorale.

Capitol Hill, 6 gennaio 2021; Brasilia, 8 gennaio 2023: persino le date sono quasi coincidenti; altrettanto l’assenza – strategica e calcolata – dei perdenti: i due presidenti uscenti Trump e Bolsonaro, che all’indomani della loro uscita dalla scena politica hanno entrambi scelto il rifugio di un’amena vacanza, forse intesa più come vuoto che non come assenza di pensieri.

Due date simbolo di un assalto ai luoghi fisici del potere, alle sedi simbolo delle istituzioni: la prima azione era stata concepita come l’atto finale e conclusivo di una pretenziosa e a tratti surreale "Save America March"; l’ultima, fomentata dal grido “pulizia generale!” scandito sulle note dell'inno nazionale brasiliano, ha evidentemente avuto anch’essa un’analoga pretesa redentrice.

Quanto si sia trattato, in entrambi i casi, di un’azione pienamente consapevole – anche in merito alle sue conseguenze – o di una sottile manipolazione è il tema ora dato in pasto all’opinione pubblica.

Il retroscena è pressoché identico: il presidente sconfitto lancia accuse di brogli elettorali e cospirazioni, inducendo a contestare il risultato del voto; Trump aveva avuto persino l’ardire di farlo platealmente: «Combattete. Combattiamo come dannati. E se non combatterete come dannati, per voi non vi sarà più un paese», aveva tuonato proprio a Capitol Hill nel suo ultimo discorso.

Bolsonaro ha scelto invece una modalità meno insidiosa (viste le sue intenzioni di ricandidarsi alle future nuove elezioni): una quanto mai fasulla presa di distanza dall’azione dei ribelli - che altri non sono che suoi sostenitori -, attento a non spalleggiarli pubblicamente, rilasciando anzi dichiarazioni di biasimo che non hanno convinto nessuno. È stato subito chiaro che l’assalto simultaneo della presidenza, del parlamento e della corte suprema brasiliana non fossero nati da un moto di insurrezione spontanea; e quale sia stato il motore dell’azione, se si è trattato di un colpo di coda di una frangia bolsonarista estrema o piuttosto di un complotto più complesso con coinvolgimenti politici e finanziari anche all’interno dello stesso apparato statale, è un dubbio su cui occorrerà far luce, giacché dalla sua soluzione discende la comprensione della reale entità – ma soprattutto della finalità – del gesto.

Sono stati impiegati termini forti per condannare i fatti di Brasilia, espressioni che hanno comparato i caratteri di dittature passate a quelli che sarebbero conseguiti alla riuscita di ciò che tanti non temono di definire un tentativo di golpe.

Ma, più che sul lessico adeguato o meno, l’aspetto su cui conviene riflettere è proprio il significato intrinseco di tale azione.

A Brasilia come a Washington è andato in scena un attentato alla democrazia.

È questo il dramma di cui va preso atto, insieme all’evidenza paradossale di come spesso l’estremismo paghi: le derive sovraniste, il conservatorismo radicale, la tracotanza di fronte a questioni di portata mondiale come il clima e le migrazioni, gli atteggiamenti suprematisti hanno sempre il potere di innescare la mobilitazione. Ma quando a scendere in campo sono coloro che, pur avendone subito i limiti e le costrizioni, se ne fanno sostenitori, verrebbe da dichiarare la resa e ad ammettere mestamente che non è meritata la democrazia ovunque non si sia in grado di difenderla.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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