19 ottobre 2024

Le “family business”, pilastro dell’economia italiana

Dal report che ha accompagnato un evento annuale dedicato allo stato di salute delle imprese familiari italiane, emergono dati che ne confermano l’importanza strategica

Autore: Germano Longo
Cos’hanno in comune Toyota, Luxottica, Samsung, Porsche, Ferrero, Nike, Fiat, Benetton, BMW e Ford? Sono colossi dei rispettivi settori, imperi conosciuti e diffusi in tutto il mondo con migliaia di dipendenti e fatturati stellari, ma soprattutto sono tutti nati come aziende familiari che fra fortuna, sapienza e impegno messo a terra da diverse generazioni, sono riuscite a diventare esempi da seguire.

Le family business, spesso in Italia considerate il diavolo e l’acquasanta per la forte identificazione tra azienda e management, sono una tessera spesso un po’ dimenticata nel grande puzzle dell’economia italiana, capace di generare l’80% del PIL, di fatturare 260 miliardi di euro e in particolare di rappresentare l’85% del complesso delle imprese italiane.

Sono i dati diffusi da “Aidaf” (Associazione Italiana Aziende Familiari) nel corso del tradizionale convegno annuale, evento che è servito anche per presentare il più recente report dell’Osservatorio AUB (Aidaf, UniCredit, Bocconi), che ha acceso i riflettori sulle possibilità di una crescita imprenditoriale che malgrado i velocissimi sviluppi tecnologici sia sempre in grado di mettere al centro la persona, ma allargando il discorso anche verso le problematiche più classiche del family business: la convivenza generazionale e l’ingresso dei giovani nei meccanismi decisionali.

Il ricambio al vertice, illustra il report, ha vissuto una forte impennata nel decennio tra il 2013 ed il 2022, con una media di 4,7% aziende familiari impegnate per ogni anno nei processi di avvicendamento, con il picco dell’ultimo triennio, in cui la media è salita al 6,9%.

Nella maggior parte dei casi, il processo di successione ha avuto un impatto largamente positivo sul tasso di crescita, diventato ancora maggiore quando chi ha ceduto il ponte di comando era un ultra-settantenne e il successore aveva meno di 50 anni.

“Storicamente, la successione al vertice era vissuta come un evento traumatico, anche perché di norma non si trattava di un passaggio preparato con cura – ha aggiunto nel corso dell’incontro Carlo Salvato, uno dei curatori - in qualche caso è tuttora così ma osserviamo oggettivamente una migliore gestione delle successioni e anche i frutti di questa maggior maturità delle aziende familiari. È probabile che la difficile stagione della pandemia abbia favorito la decisione dei predecessori di lasciare a dei successori senza improvvisare”.

“Osservando le aziende familiari quotate per cui è disponibile un rating ESG, abbiamo visto che un nuovo CEO significa in media 4 punti in più di rating nel triennio a seguire, che salgono a 8 se si tratta di un CEO donna – ha dichiarato il supervisore scientifico Guido Corbetta - questa attenzione alla sostenibilità e alla diversity è un elemento di grande interesse che continueremo a monitorare. Comunque la si veda, possiamo senz’altro concludere che stiamo entrando in un’epoca in cui la successione al vertice di una impresa familiare non è più una minaccia ma un’opportunità”.

A livello generale, prosegue il report, i dati evidenziano che la ripresa delle aziende familiari italiane dopo il periodo critico della pandemia sia più veloce e strutturale di quella successiva alla devastante crisi finanziaria che fra il 2008 e l’anno successivo aveva fatto tremare il mondo intero. Lo dimostra la crescita degli occupati, che ha raggiunto il 7,3% rispetto al periodo pre-pandemico, perfino superiore al 4,5% nelle imprese non familiari, con un calo anche delle realtà aziendali alle prese con una situazione patrimoniale più delicata: attualmente, ricorda il report, fra le 11.635 aziende a controllo familiare italiane con fatturato superiore a 20 milioni di euro, quelle che attraversano momenti critici sono il 19,7% del totale, un confortante 15% in meno rispetto al 2011.
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