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Le “nostre” prigioni

Autore: Ester Annetta
“’N’ci puozz pensà….’n’ci puozz pensa’” continua a ripetere Vincenzo (Enzo) Cacace, ponendo una lunga pausa ogni volta che ricomincia a ripetere quella frase come se, intanto, rivedesse scorrere le feroci immagini rimaste impresse nella sua mente.

Inizia così il racconto di quell’inferno, la lunga mattanza del 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere cui è seguita l’indagine della Procura della Repubblica che ha portato, nei giorni scorsi, a 52 ordinanze cautelari a carico di altrettanti membri della polizia penitenziaria.

Enzo – ex detenuto di quella prigione - è sulla sedia a rotelle; ma questo dettaglio non è servito ad evitargli che anche su di lui si abbattesse la furia degli agenti: pugni e manganellate gli hanno fatto perdere alcuni denti, malmesso un occhio che ora non riesce ad aprire completamente, creato una piccola cavità nello sterno, già segnato dalla cicatrice di un pregresso intervento al cuore.

“Ci hanno massacrato” – dice Enzo, continuando a srotolare a mente il ricordo di quel terribile pestaggio – “Mi hanno distrutto, mentalmente mi hanno ucciso….Io sono sulla sedia a rotelle, mi sono abbassato perché non ce la facevo più…in faccia, in fronte, dietro alla schiena…e più martellavano. Simm’ stati carn e maciello. …Per me non erano esseri umani, erano demoni….Noi siamo malavitosi, abbiamo sbagliato nella vita: è giusto, dobbiamo pagare; se sbagliamo andiamo in carcere, la dobbiamo scontare la pena, ma non con la vita, perché la vita è importante. Se andiamo in carcere, non siamo dei numeri di matricola, siamo esseri umani.”

Frammenti di un incubo, che anche altri detenuti rimasti ancora in quel carcere hanno ripetuto e completato d’altri macabri dettagli.

Si potrebbe persino dubitare che siano storie artefatte, racconti esaltati, se non ci fossero le immagini di quelle videocamere di sorveglianza – rimaste incautamente accese – a confermare ogni parola, ogni gesto, ogni vergognosa azione di chi, per missione, dovrebbe credere nella funzione riabilitativa degli istituti penitenziari e, invece, al grido de “Lo Stato sono io”, abusa del proprio ruolo e della propria divisa.

Il tutto per “dare un segnale forte” - come si legge in alcune chat ricavate dai telefoni degli agenti indagati – a fronte di una protesta (peraltro nemmeno illegittima) dei detenuti che, durante lo sfogo maggiore della pandemia, pretendevano l’adozione di maggiori misure di sicurezza per il contenimento dei contagi.

“Fu una cosa assurda, mai vista. Ci hanno pestato per ore, facendoci spogliare, inginocchiare, qualcuno si è fatto la pipì addosso, a qualcun altro hanno tagliato barba e capelli. Il giorno dopo ci hanno fatto stare in piedi non so per quanto tempo vicino alle brande, come fossimo militari": così ha raccontato un altro detenuto, aggiungendo che gli agenti avevano persino creato una sorta di corridoio in mezzo al quale passavano i prigionieri continuando a prendere manganellate, come in una sorta di perverso gioco, uno “schiaffo del soldato”, ma tutt’altro che divertente.

Quid novi?, verrebbe da chiedersi: abusi e maltrattamenti inferti ai detenuti da parte di “squadre punitive” di agenti penitenziari, insieme al sovraffollamento delle carceri non sono forse, in Italia, piaghe che da anni reclamano interventi? Non sono forse realtà talmente ricorrenti da essersi ormai – paradossalmente – strutturate in quasi tutti i nostri istituti di pena?

Un rapporto pubblicato a gennaio dello scorso anno dal Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura (Cpt) l’ha messo in rilievo ancora una volta, descrivendo una situazione molto critica. Ne è emersa – con particolare riferimento ai detenuti in regime di 41bis - la necessità di “avviare una seria riflessione sul bilanciamento tra le esigenze di lotta alla criminalità organizzata e il rispetto del concetto della funzione rieducativa della pena, alla luce dell’articolo 27 della Costituzione italiana”.

Una pregevole dichiarazione d’intenti che, tuttavia, evidentemente tale continua a rimanere, poiché – come è frequente che accada nel nostro Paese – alle “riflessioni” ed alle “raccomandazioni” con fatica si riesce a dare un seguito con le “azioni”.

Forse, allora, quest’ultimo atto, questa "un'orribile mattanza" – come l’ha definita il Gip nel provvedimento di custodia cautelare emesso per questi ultimi fatti – può essere, nella sua drammaticità, lo sprone che serviva, la “volta buona” per agire decisamente con un intervento “pilota” cui altri analoghi possano far seguito, affinché tornino ad essere chiari i ruoli e le funzioni di coloro di cui Enzo Cacace ha detto: “sono loro i malavitosi perché vogliono comandare in carcere”.

“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”: questo è il principio che afferma la nostra Costituzione; questa è la condotta che si impone a chi troppo spesso fa del potere un’arma anziché una difesa.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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