Non sono un’appassionata del Festival di Sanremo: lo guardo per curiosità – sull’onda dell’aspettativa creata dai media nelle settimane che lo precedono – e non per tradizione né per reale interesse. E in genere, non riesco mai ad andare oltre la soglia della prima serata, che è comunque un po’ di più del tempo di resistenza dimostrato dal Presidente Mattarella sul palchetto dedicatogli.
Perciò, mentre scrivo – quasi fosse un atto dovuto, preteso da un evento che per cinque serate di fila sarà riuscito a catalizzare l’attenzione di milioni di persone, sviandola da guerre e terremoti – non so ancora cosa sarà accaduto nelle serate successive a martedì; ma mi basta.
L’intenzione non è quella di commentare le performances degli artisti, che, peraltro, come per una sorta di paradossale – ma forse strategica - inversione delle parti, sembrano diventate quasi intermezzi, calati ad hoc nel resto delle tante altre cose che accadono; e non è nemmeno quella di assecondare o ribattere alle critiche che, inevitabilmente, all’indomani di ogni serata vengono mosse a ospiti stantii, presentatori, abiti, monologhi più o meno azzeccati e vallette di turno (specie quelle che, fuori dal loro habitat naturale virtual-social, faticano a mostrare sostanza).
Mi piace invece fermarmi a sviluppare lo spunto offerto da quella appassionata e potente orazione sulla “libertà d’espressione” tanto mirabilmente resa da Roberto Benigni nel suo omaggio alla Costituzione, e di quell’azione sconsiderata che – qualche ora dopo, su quello stesso palco – è sembrata contrapporvisi, come un altrettanto eloquente espressione di sua esasperazione.
“Il pilastro di tutte le libertà dell'uomo", ha sottolineato l’attore, è quello che riconosce che "tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero", che è ciò che dice l’art. 21 della Costituzione “con un linguaggio semplice che sembra scritto da un bambino, di una forza e bellezza che si rimane stupiti”. Benigni ha proseguito col ricordare la grande conquista che è stata quella libertà, all’indomani della dittatura fascista che aveva vietato il libero pensiero, e a confronto della realtà di altri Paesi dove “gli oppositori vengono carcerati e incatenati, solo perché mostrano il volto o i capelli, o perché ballano e cantano.”
Quella stessa libertà l’ha ribadita poco dopo anche Chiara Ferragni, lasciando parlare (meglio di quanto non abbia fatto lei stessa con le parole) le scritte sui suoi abiti, più dirette all’universo femminile, ma tuttavia pregne di quell’incitazione ad esprimersi liberamente contro le imposizioni e le oppressioni che troppo spesso sono costrette a subire.
Infine è stata la volta di Blanco che, interrompendo la sequenza positiva del messaggio che è stato il leitmotiv della serata, l’ha in qualche modo equivocata – o, meglio, esasperata – quella libertà d’espressione, eccedendo in una reazione di rabbia che è costata cara alla scenografia del palco ed ai suoi fiori.
A far riflettere, infatti - più che la devastazione prodotta da quell’eccesso d’ira (che prontamente si è corsi a giustificare con la fragilità di un ragazzo di vent’anni incapace di mantenere il controllo di fronte ad una situazione che ingenera ansia e tensione) – è l’affermazione usata dal cantante come formula di chiusura per motivare la sua condotta: “Non sentivo la voce e allora, dai, mi sono divertito così”.
Come dire: ‘se non posso esprimermi cantando, mi esprimo in altro modo, anche violentemente. È un mio diritto, è una mia libertà’.
Ho pensato al mio alunno Alessandro che, ogni volta che lo riprendo per una parolaccia urlata con disinvoltura in classe ad un suo compagno, anche durante le lezioni, risponde placidamente “’A prof, nummepò mette ‘a nota: c’è ‘a libertà d’espressione”.
Il punto allora è questo: la messa al bando delle libertà è esecrabile in ogni contesto e ad ogni latitudine terrestre ed è perciò un privilegio averle ereditate da chi si è battuto per riconquistarle ed elevarle al di sopra d’ogni principio, facendone il fondamento delle società civili e democratiche. Ma resta pur sempre un’esigenza di misura, che si sostanzia innanzitutto nel riconoscere che la libertà di ciascuno trova compimento e limite laddove inizia l’identica libertà di ciascun altro e che è perciò necessario non perdere di vista la linea di confine dove si sfuma il suo territorio e si delinea quello del rispetto. Qualunque forma di rispetto: per le mancanze e le sufficienze; per i fallimenti ed i traguardi ed anche per il valore, per il lavoro, per l’impegno e la fatica altrui.
Perciò, dai giovani in particolare, e soprattutto da quei ventenni che dettano mode e tendenze - e a cui troppo spesso si vuole condonare ogni eccesso col pretesto della fragilità pur di non ammetterne l’arroganza, l’irriverenza e persino la stupidità - va pretesa la consapevolezza d’ogni diritto, ma anche d’ogni suo rovescio. E, con essa, anche conoscenza di quei valori di cui ogni padre (anche il proprio, con l’iniziale minuscola) si è reso “costituente”, con la sua ragionevolezza e col suo sforzo di dare il buon esempio.