15 aprile 2023

Mare dentro

Autore: Ester Annetta
Diecimila anni fa, al posto di quell’immensa, arida, distesa di sabbia che è il deserto del Sahara, pare che ci fosse un luogo brulicante di vita. C’era acqua; c’erano flora e fauna diversificate; c’erano insediamenti umani.

Lo testimonierebbero gli innumerevoli reperti fossili ritrovati, risalenti all’Olocene medio e antico (tra i diecimila e i quattromila anni fa), l’80% dei quali è rappresentato da pesci.

In realtà, secondo i ricercatori, gran parte dei resti animali ritrovati sarebbero rifiuti alimentari umani, giacché presentano segni di taglio e tracce di bruciature. Cionondimeno, la progressiva diminuzione di varietà dei pesci ritrovati a vantaggio della crescita di quelle specie in grado di sopravvivere in acque poco ossigenate e a basso fondale, ha fatto ritenere che l’ambiente a poco a poco sarebbe divenuto meno favorevole alla crescita ittica e più arido.

Dunque, prima che il volto della terra cambiasse e che drammatici cambiamenti climatici modificassero l’ambiente, il Sahara avrebbe ospitato il mare.

Questa teoria dall’indubbio fascino, appare al tempo stesso come un monito, destando l’allerta su come di nuovo oggi, a distanza di millenni, e per cause non propriamente naturali - o quanto meno forzate da una scriteriata azione umana – sia nuovamente incombente il rischio della desertificazione di altre ampie aree del pianeta.

Ciò che, però, appare grottesco è che, al fine di impedire una nuova catastrofe, anziché concentrare gli sforzi nell’attuare rimedi possibili, improntati ad un’azione condivisa e perciò più efficace – quale risulterebbe essere quella suggerita dai vari documenti e protocolli diretti alla riduzione delle emissioni nocive – si azzardino anche iniziative poco realistiche se non addirittura folli.

È il giudizio che ho espresso dopo aver appreso la notizia dell’esistenza di audaci piani ingegneristici (peraltro non nuovi) che mirerebbero a inondare zone del Sahara (giacché ampie sue parti si trovano sotto il livello del mare) e riportarle allo stadio di ‘fondale marino’ com’era millenni fa.

Per quanto folle apparisse già allora, è comunque apprezzabile che una simile idea fosse venuta in mente a personaggi vissuti tra la fine dell’800 e la prima decade del ‘900. A quel tempo l’emergenza climatica era ancora ben lontana e la bizzarria dell’idea risultava tuttavia compatibile con quel guizzo di genialità che l’intuizione poteva rappresentare.

Era stato per primo un ingegnere britannico nel 1877 a proporre il progetto del ‘Sahara Sea’. La sua intenzione era quella di inondare il bacino di El Djouf scavando un canale di 644 km partendo dal Marocco, così da creare un mare interno di un'area di circa 97.000 chilometri quadrati (le dimensioni dell’Irlanda). Un anno dopo, due ingegneri francesi avevano proposto un piano simile che prevedeva di inondare un bacino a sud della Tunisia scavando un canale proveniente, stavolta, dal Golfo di Gabes. In entrambi erano stati però negati i finanziamenti necessari. Più tardi, intorno a 1910, un altro studioso francese aveva provato a riprendere in mano quei progetti, ancora una volta senza riuscire ad ottenere fondi.

È invece di tutta evidenza l’assurdità dei progetti avanzati in tempi più recenti, a partire da quello lanciato dalla Commissione per l'energia atomica degli Stati Uniti alla fine degli anni ’50 – il progetto Plowshare – che prevedeva di utilizzare la denotazione "pacifica" delle bombe nucleari per creare i canali necessari per inondare la depressione di Qattara, in Egitto.

Fortunatamente l'uso di detonazioni nucleari pacifiche è stato vietato da diversi trattati internazionali e quel folle progetto è stato quindi interrotto nel 1977.

Eppure, c’è ancora chi l’azzarda. Nel 2018 un'azienda della Silicon Valley ha riproposto l’idea di inondare l'area desertica di Algodones Dune in California utilizzando esplosioni nucleari per creare micro-serbatoi in cui far crescere alghe che agirebbero come serbatoi di carbonio. Servirebbe a combattere il riscaldamento globale.

Ma come si può anche solo pensare che, per tentare un rimedio, si debba impiegare uno strumento a sua volta ben più dannoso? Un tale cinismo non è forse simile a quello dei potenti signori della guerra che – come se fosse un gioco - ciclicamente minacciano di schiacciare un temibile pulsante, convinti, peraltro, che ad essi non tocchino le conseguenze della distruzione che ne deriverebbe?

C’è davvero da restarne sconcertati. E ciò che è più assurdo è che a scoraggiare tali folli iniziative debba essere la mancanza di finanziamenti (nel caso da ultimo citato si tratterebbe di ben 50 trilioni di dollari!) piuttosto che la consapevolezza del danno ambientale che ne deriverebbe.

Se questa è la misura del senso di responsabilità e d’attenzione alla salvaguardia di ciò che resta del nostro pianeta, vuol dire che qualcosa non sta funzionando come dovrebbe. O che non è ancora sufficientemente maturata la coscienza del pericolo che stiamo correndo.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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