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Medea

Autore: Ester Annetta
Il primo verso della Medea di Euripide lo ricordo ancora a memoria dai tempi del liceo, in greco, scandito in metrica.

Ricordo anche bene il racconto di quella tragedia e, soprattutto, il dramma della sua infelice protagonista, quel miscuglio di dolore, gelosia e follia preso poi in prestito dalla psicologia per delineare le caratteristiche di una inquietante forma di alienazione mentale.

È nota come “Sindrome di Medea” – appunto – ed identifica quelle condotte materne deviate che culminano con l’uccisione del figlio.

Nella tragedia euripidea, Medea, tradita dall’irriconoscente Giasone - che aveva aiutato in tutti i modi a conquistare il vello d’oro, arrivando persino ad uccidere e fare a pezzi il proprio fratello in modo da tardare l’intervento di suo padre, che avrebbe potuto altrimenti impedire la fuga degli Argonauti - elabora una crudele vendetta: dapprima, fingendo una riconciliazione con Giasone, tesse per la sua nuova sposa un vestito di nozze che ne causerà la morte perché intriso di un potente veleno; poi, ancora non soddisfatta, dopo averli baciati a lungo uccide anche i figli avuti da Giasone, così da privarlo della sua discendenza.

Ricondotto alla realtà, questo è più o meno lo schema che ricorre in quei fatti di cronaca che riportano l’uccisione di un bambino da parte di una madre, i loro retroscena, le loro cause.

Se già di per sé l’infanticidio è un episodio aberrante, lo è ancora di più quando a commetterlo sono le madri; è, tuttavia, in tal ultimo caso che si apre prontamente il confronto – o lo scontro – tra il senso comune, che perlopiù tende a condannarle, e l’analisi clinica delle motivazioni psicologiche in cui vuole andarsi a ricercare il seme della follia da cui è scaturito l’insano gesto, la “deviazione mentale” che possa considerarsi al tempo stesso come causa, movente e attenuante dell’azione.

Anna Maria Franzoni ha ucciso il piccolo Samuele;
Veronica Panarello ha ucciso Loris;
Viviana Parisi ha ucciso Gioele;
Infine, Erzsebet Bradacs pochi giorni fa ha ucciso Alex.

Ognuna di queste madri, in maniera più o meno elaborata e dettagliata, ha meditato e pianificato il figlicidio. C’è stata quella che ha inscenato un furto nella propria villetta e la conseguente aggressione nei confronti del figlio; quella che ha simulato il rapimento a sfondo pedo-sessuale; quella che, incapace di vedere prospettive per il proprio futuro, ha creduto che porre fine alla propria esistenza ed a quella del suo bene più grande fosse l’unica soluzione; quella, infine, che pur di non lasciare il figlio al padre affidatario ha pensato di disfarsene, uccidendolo a coltellate ed inviando poi la foto del corpicino esanime al figlio maggiore accompagnata dalla didascalia: “Così non lo avrà nessuno”.

Ma nessuno di questi crudeli assassinii è stato fine a se stesso, ed è quello che li rende singolari, diversi da ogni altro, pur non escludendone l’orrore e la gravità.

Sottile e drammatico è il meccanismo mentale che ha guidato la condotta di ognuna di quelle madri: il figlio, la propria creatura, sangue del proprio sangue, si è trasformato da “legame” in “legaccio”, minando il senso di sé di ciascuna.

Un amore eccessivo ed incondizionato come solo può essere quello di una madre per il proprio figlio può sovente portare all’annientamento di sé, alla subordinazione di ogni altra esigenza – dalla cura del proprio aspetto alla relazione col partner – alla priorità richiesta da quell’esserino. Possono allora innescarsi delle reazioni, quasi sempre inconsapevoli, di rifiuto (per quel figlio-ostacolo che impedisce di considerare se stessa), di gelosia (verso quel piccolo tiranno che attira su di sé tutte le attenzioni), di vendetta (quando sia attribuita all’arrivo di un figlio la responsabilità di una separazione, chiesta da un marito stanco di non avere più accanto una compagna ma solo una madre). Può anche, viceversa, accadere che quell’amore diventi tanto totale ed assolutizzante da non poterne fare a meno, così da non accettare che un giorno il cordone ombelicale si spezzi ed il bimbo divenga un individuo indipendente, capace di scelte, libero d’andarsene.

La morte, allora, può sembrare il rimedio: non rappresenta l’epilogo d’un delirio di onnipotenza coincidente con l’illusione di poter essere creatori di una vita e suoi distruttori, ma piuttosto l’equazione che restituisce ordine alle cose, che appaia i piatti della bilancia, che diffida, finalmente, quella solitudine (perché è di questo che si tratta, in finale) in cui si era tradotta la maternità.

E dopo cosa accade?

Ancora una morte - stavolta la propria – com’è stato per Viviana Parisi, perché la consapevolezza che riaffiora subito dopo aver ucciso un figlio è un fardello con cui non si può convivere;
la presa di coscienza, dunque una confessione e, perciò, l’accettazione di una pena quanto mai meritata, com’è stato per Veronica Panarello;
la rimozione e, quindi, la negazione convinta di quanto sia accaduto, come fu ed è tuttora per Anna Maria Franzoni.

Per Erzsebet Bradacs il finale non è ancora stato scritto.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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