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Migrazioni

Autore: Ester Annetta
Il silenzio e la quiete dell’alba, stamattina, sono stati improvvisamente interrotti da un frastuono inconsueto: sui rami del grande larice che campeggia al centro del cortile del mio palazzo stava radunandosi uno stormo d’uccelli. S’erano dati appuntamento lì, per prepararsi, tutti insieme, alla loro – evidentemente tardiva –migrazione verso terre più calde.

Era tutto un batter d’ali e di cinguettii. Eppure, a guardare tanto movimento, la sensazione non era né di calca né di disordine: pareva, anzi, che ognuna di quelle bestiole sapesse esattamente quale ramo scegliere e dove andarsi ad adagiare, senza alcuna prepotenza, senza scalzarne nessun’altra dal posto già occupato. Era come se tutte rispettassero, rigorosamente, un preciso schema predeterminato.

La chiamata a raccolta ha impiegato una manciata di minuti a concludersi; poi, quell’incredibile plotone, compatto e coeso, ha improvvisamente spiccato il volo, lasciando l’eco d’un soffio potente ingenerato dal battito di centinaia di ali.

Ho immaginato compiersi così tante altre migrazioni, di quelle che, però, non si affidano ad ali né al vento, ma all’incognita dei flutti ed all’incertezza della destinazione.

Ho pensato a plotoni d’anime perse radunate su spiagge buie e isolate, in procinto di imbarcarsi su mezzi di fortuna e di speranza, rispettose anch’esse d’un ordine e d’un protocollo rigidi ed essenziali, dettati dalla necessità d’attenersi ai tempi strettissimi della distrazione per cui le pattuglie di guardie sono state pagate.
Ho provato a immergermi nel nero dello sconforto di tanti cuori, confuso con la pece liquida del mare notturno e con quella densa d’un cielo altrettanto scuro e senza stelle, scelto apposta per non tradire con i suoi bagliori la piccola imbarcazione su cui galleggiano corpi e sogni.

Ho seguito con la mente traversate finite in approdi clandestini ed altre – tante - conclusesi, invece, in rovinosi naufragi, dove al setaccio della morte sono passati i più - uomini, donne e bambini rimasti senza volti e senza identità - persi per sempre sul fondo d’un mare sconosciuto o trascinati esanimi sulle rive di spiagge straniere, che avrebbe avuto senso raggiungere solo da vivi.

Per tutti costoro, non ci sono stagioni di migrazioni, né è il freddo a indurne il passaggio a latitudini diverse. Sono piuttosto altri bisogni a rendere quotidiane le loro fughe, senza calcolo di mesi, settimane o giorni.
La fame, le guerre, la povertà non hanno calendario.

E non conoscono tregue, feste o sacramenti. Non prevedono un Tempo d’Avvento in cui ogni cosa pare poter restare sospesa, nel clima lieto d’attesa d’una Natività che significa rinascita.

Non contemplano la veglia fino a un capo-d’-anno col quale si possa far letteralmente coincidere la data d’avvio d’un periodo nuovo, scandito da nuovi progetti e buoni propositi: per gli esuli, i fuggiaschi, i migranti, nuovo inizio è ogni tempo e ogni luogo in cui sia concessa loro la fortuna di poter veder sorgere l’alba al termine del loro viaggio, all’indomani della salvezza.

Non scordiamocelo, allora, che ancora in questo freddo dicembre stormi tardivi tenteranno la loro traversata verso terre prospere, miraggi di luce al di là del buio dell’inferno e dell’inferno; che, pure la notte di Natale, qualche misero barchino navigherà tra le onde, inseguendo una cometa immaginaria che parrà brillare su un orizzonte di speranza e di salvezza; che all’alba d’ogni nuovo giorno come d’ogni nuovo anno qualcuno busserà alle porte dell’accoglienza, tendendo una mano e implorando uno scampolo d’umanità.

Non scordiamocelo che Natale non è tra i pacchetti, l’albero e le luci, ma è nel cuore e nella coscienza.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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