13 novembre 2021
13 novembre 2021

Mondi paralleli

Autore: Ester Annetta
Non sono un’amante dei social e li capisco pure poco.

Ho provato ad adeguarmi ai dettami della modernità ed allinearmi all’uso di nuovi strumenti comunicativi, aprendo sia un profilo Instagram (che non utilizzo mai) che uno Facebook (che impiego più o meno da un anno e mezzo perlopiù per veicolare i miei articoli, senza aver impostato filtri o limitazioni d’alcun tipo e avendo ancora oggi serie difficoltà a comprendere alcune funzioni (confesso di aver capito relativamente da poco cosa significasse “taggare”), ma non mi sono mai spinta così oltre da sfiorare quell’”effetto dipendenza” che pare essere tanto diffuso tra l’utenza.

Continuo a prediligere il telefono, come mezzo più immediato e diretto per parlare con chi davvero mi fa piacere sentire, e whatsapp come strumento rapido di messaggistica, evitando accuratamente di prendere parte ai dibattiti infiniti che si scatenano a volte sui gruppi cui, obtorto collo, per ragioni organizzative ed informative legate a varie attività che mi occupano, sono tenuta a partecipare.

Più in generale, posso affermare con decisa convinzione che diffido d’ogni artifizio con cui il virtuale rischia di sovrapporsi al reale e - chissà, sarà forse anche una questione di zodiaco - tendo sempre a rimanere ancorata al concreto, con i piedi ben piantati a terra.

Confesso, dunque, d’essere rimasta molto turbata quando, cercando di saperne di più su quel “Metaverso” di cui ultimamente si fa un gran parlare, mi sono trovata davanti alla descrizione di un quadro che vorrei poter definire solo desolante ma che, invece, mi sento di poter giudicare addirittura preoccupante.

Il fantastico Metaverso viene raccontato con toni entusiastici non solo – com’è comprensibile - dal suo geniale ideatore, Zuckerberg, ma anche da una cospicua fetta di esaltati ammiratori delle nuove tecnologie, certamente appartenenti a generazioni molto più recenti della mia e, dunque, più affascinati dalle loro possibili implicazioni. Ma, evidentemente, anche più incauti.

Nell’attesissima diretta Facebook (manco a dirlo!) di qualche sera fa, nell’annunciare la nascita di quel “Meta”-verso che, secondo l’etimologia greca che ha tenuto a citare, vuol significare quell’”oltre” cui punta la sua nuova impresa, Zuckerberg ha parlato dell’inizio di un nuovo capitolo per Internet, con la nascita di una piattaforma ancora più immersiva.

La rete andrà oltre il “semplice” online, trasformandosi in una realtà alternativa: un meta-luogo virtuale dove sarà riprodotto un altro mondo, simile a quello reale, fatto di città, strade, case, negozi, cinema, in cui si potrà vivere, andare a spasso, incontrare amici e fare shopping attraverso il proprio avatar, la replica virtuale di se stessi.

Basteranno un paio di occhiali speciali per la realtà aumentata, equipaggiati persino di sensori in grado di far riprodurre al volto del proprio avatar varie espressioni (sorrisi, smorfie e perfino tristezza e lacrime), e, magicamente, mentre nella realtà si potrà restare comodamente sdraiati in pigiama sul divano di casa, il proprio alter ego vivrà mille esperienze ed avventure in un diverso altrove. Potrà persino fare acquisti ed investimenti, utilizzando una moneta altrettanto virtuale che sarà la legenda di una nuova economia.

È spaventoso.

Accettare il ricorso a forme “smart” di lavoro, studio, incontri è stata una necessità durante la pandemia, un’alternativa dettata dal bisogno di creare una continuità con una quotidianità spezzata e forzatamente mutata.

Ma fare, ora, deliberatamente e consapevolmente un ulteriore passo in là, consegnando le proprie esistenze alla parvenza, al fittizio, all’illusione è pericolosissimo: significa annullare la realtà, confinarsi in un universo parallelo inesistente, in cui nulla coincide con il vero, spegnere l’interruttore delle relazioni umane fatte di contatto e vicinanza fisica, di emozioni e sensazioni palesate attraverso i cinque sensi, di immagini di sé riflesse in specchi reali tanto onesti da restituire anche capelli bianchi, rughe e chili distribuiti disordinatamente, barattandoli con falsi idoli di se stessi e mondi incantati, destinati a svanire non appena si depongono le lenti magiche attraverso cui si osservano.

A pensarci bene, è pur vero che – in maniera molto più ridotta – di apparenza ci si nutre già adesso, quando, standosene seduti davanti ad una tastiera, immersi nel proprio mondo social, si espongono in vetrina frammenti artefatti di situazioni ordinarie, lineamenti alterati di volti basici, immagini distorte di vite comuni, con l’intento di suscitare l’invidia o l’ammirazione d’una platea di spettatori che contraccambiano con altrettanti scenari riallestiti con tinte brillanti e vivaci.

Il Metaverso, allora, altro non sarebbe che la definitiva legittimazione dell’adozione d’un mondo parallelo in cui l’alterazione è la regola che incoraggia l’altalena schizofrenica di quanti, tra dentro e fuori, tra reale e immaginario, rischiano di confondere il vero, di estraniarsi, di perdersi, autocondannandosi ad una solitudine malata.

Ma è un argomento sufficiente? È davvero possibile sostenere che questa via è la naturale evoluzione di un cammino verso cui i social (e pure certi videogames) ci hanno già indirizzato?

Quando ho chiesto a mio figlio cosa ne pensasse del Metaverso, ha manifestato esattamente i miei stessi timori: “Può essere molto pericoloso costruirsi un mondo finto se, tolto quell’intervallo, il resto del tempo lo vivi in una realtà ben diversa, dove inevitabilmente finisci per non ritrovarti. Il rischio è quello di colare a picco quando ti accorgi che hai investito in qualcosa che non esiste”.

Mio figlio ha venticinque anni, è dunque un esemplare appartenente alle nuove generazioni tecnologiche.
Ma pare avere un buon senso più antico.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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