Dal 2008, e per 15 anni, Carlo Soricelli – metalmeccanico in pensione – ha portato avanti una missione: monitorare e registrare tutti i morti sul lavoro, anche quelli che dalle statistiche ufficiali non risultano. Prima con l’aiuto dei figli che hanno creato per lui un blog e gli hanno insegnato ad usare le tabelle Excel, poi col supporto di un numero sempre crescente di altri volontari che hanno continuato a raccogliere e trasmettergli informazioni, ha dato vita all’”Osservatorio nazionale di Bologna morti sul lavoro”, con l’intento di tenere sempre aggiornati i dati delle vittime, tenendo conto anche di quelle che non risultano nei conteggi dell’INAIL (unica fonte istituzionale) perché non assicurate. Ha scoperto così che tra liberi professionisti, lavoratori in nero e agricoltori ignoti all’INAIL, i morti effettivi sono, annualmente, più del doppio di quelli ufficiali.
Come ha raccontato lui stesso in varie interviste, l’esigenza di compiere quest’importante monitoraggio era nata a seguito del terribile incendio divampato il 6 dicembre 2007 nello stabilimento della Thyssen-Krupp di Torino, dove persero la vita sette operai. La notizia lo aveva colpito molto e, giacché era da poco andato in pensione, aveva deciso di dedicare il suo tempo, oltre che all’arte, la sua passione (poiché Carlo dipinge e scolpisce), anche alla ricerca di queste verità, nella speranza che, amplificando la risonanza di tante morti sul lavoro, anche l’attenzione delle istituzioni diventasse maggiore.
Una speranza che, come egli stesso ha dovuto più tardi riconoscere, è stata del tutto malriposta, di fronte ad indifferenza e inerzia imperanti che per lo più si fermano alla dichiarazione d’intenti “mai più morti sul lavoro”, puntualmente pronunciata all’indomani di ogni nuova tragedia, e altrettanto prontamente dimenticata poco dopo, come la tragedia stessa.
L’ultima in ordine di tempo è quella di Brandizzo, la cui memoria a distanza di poche settimane si sta già sgretolando, come è accaduto per le innumerevoli altre che l’hanno preceduta. La carica emotiva e il disappunto immediati, generati dai notiziari diffusi in tv o via web che cercano di accumulare dettagli e particolari sensazionalistici per catalizzare l’interesse e la partecipazione del pubblico, sono destinati a scemare dopo pochi giorni. Poi tutto riprende come prima, compresi gli stessi lavori insicuri, non protetti, clandestini, che tornano ad essere veri e propri campi di battaglia su cui si continueranno a contare altre vittime future.
Le chiamano “morti bianche” quelle che capitano sul lavoro, e quell’attributo cromatico allude alla mancanza di una mano che possa considerarsi direttamente responsabile dell’incidente che le ha causate.
Ma è davvero così o non si tratta piuttosto una formula di comodo che tende a coprire responsabilità che invece esistono e sono variamente legate a mancanza di controllo o manutenzione, a scarsi o assenti investimenti in sicurezza e, non da ultimo, a ignobili forme di sfruttamento? Il tutto in nome della velocità con cui si deve lavorare al fine di aumentare la produttività e, dunque, il profitto.
Lavoratori e lavoratrici finiscono allora per diventare macchine essi stessi o propaggini di quelle che manovrano; strumenti necessari a mantenere certi ritmi e certi risultati produttivi a dispetto della loro umanità; mezzi a servizio di contesti disumani e disumanizzanti, in barba ad ogni tutela e ad ogni diritto universalmente sancito.
“Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”, recita l’art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti umani; ed alla tutela della vita umana e della sua dignità si rifanno anche il Patto internazionale ONU relativo ai diritti civili e politici e l’altro relativo ai diritti economici, sociali e culturali, oltre alle varie Costituzioni nazionali.
È allora corretto continuare ad etichettare queste morti come “bianche” laddove invece sussistono responsabilità di tutta evidenza che macchiano del colore del sangue delle vittime le coscienze di chi è, più verosimilmente, reo di un vero e proprio omicidio e non semplicemente imputato di un incidente?
Carlo Soricelli a lungo ha avuto il coraggio di gridare che il lavoro uccide nel disinteresse generale, sempre più solo nel suo inutile tentativo di far scendere in campo, concretamente, le istituzioni.
Così a inizio d’anno, con una lettera aperta alla Regione Lombardia, ha annunciato la chiusura al pubblico del suo Osservatorio, portandosi dietro l’etichetta di ‘nemico’ dei giornalisti – come l’aveva definirlo uno di loro – giacché con i suoi morti “metteva in discussione la loro narrazione minimalista” tendente a coprire inefficienza istituzionale e ‘misteri’ come quello della gestione dei soldi sulla Sicurezza.
In una poesia da lui stesso composta ha espresso in maniera diretta ed incisiva questa sua verità, su cui tutti bisognerebbe che riflettessimo:
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Chiamatele pure morti bianche. Ma non è il bianco dell’innocenza- non è il bianco della purezza- non è il bianco candido di una nevicata in montagna- È il bianco di un lenzuolo, di mille lenzuoli che ogni anno coprono sguardi fissi nel vuoto- occhi spalancati dal terrore- dalla consapevolezza che la vita sta scappando via. Un attimo eterno che toglie ogni speranza- l’attimo di una caduta da diversi metri- dell’esalazione che toglie l’aria nei polmoni- del trattore senza protezioni che sta schiacciando- dell’impatto sulla strada verso il lavoro- del frastuono dell’esplosione che lacera la carne- di una scarica elettrica che secca il cervello. È un bianco che copre le nostre coscienze- e il corpo martoriato di un lavoratore. È il bianco di un tramonto livido e nebbioso. di una vita che si spegne lontana dagli affetti. di lacrime e disperazione per chi rimane. Anche quest’anno oltre mille morti- vite coperte da un lenzuolo bianco. Bianco ipocrita che copre sangue rosso- e il nero sporco di una democrazia per pochi. Vite perse per pochi euro al mese- da chi è spesso solo moderno schiavo.