Incastonato nella cornice di montagne verdissime che non sono ancora Sila né Pollino, c’è un luogo di pace e silenzio nel cuore della mia Calabria cui sono legati alcuni dei miei ricordi di bambina.
Ospita un Santuario dedicato ad una Madonna miracolosa – detta “del Pettoruto” – la cui festa si celebra a settembre, quando viene portata in processione addobbata da gioielli d’ogni fatta, donati come ex voto dai fedeli che la venerano.
Quand’ero bambina, la lunga distesa di bancarelle che accompagnavano (e tuttora accompagnano) i giorni dedicati a quella festa erano uno degli appuntamenti più attesi dell’anno, in cui era consentito fare scorpacciate di noccioline, barrette di sesamo e miele, mandorle caramellate, quasi una rarità a quei tempi.
Ci sono tornata qualche giorno fa, al Pettoruto, ritrovando un contesto ormai mutato dal tempo e dagli interventi di cura e restauro che sono stati frattanto realizzati, insieme alla costruzione di piccole dimore per i pellegrini e di una struttura un po’ più grande e ben rifinita che per qualche decennio ha funzionato come albergo. Non è più tale già da un qualche anno, riconvertita, con ottima intuizione, in Residenza Assistita per anziani. Difatti, la bellezza e la suggestione di quel luogo - che d’inverno riveste di candore i fianchi delle montagne intorno e d’estate ne gode della frescura - suggeriscono un’idea di serenità e riposo, esattamente le dimensioni che sembrano più adatte e naturali all’età degli ospiti.
Ci sono andata insieme a Paola, mia amica d’infanzia mai perduta nonostante ci separino chilometri e stagioni. Fausto ed Elena, i suoi genitori, risiedono entrambi qui, una scelta che si è resa necessaria quando Paola – che è sempre vissuta con loro, vocandosi alla loro assistenza e cura – ha dovuto arrendersi all’evidenza che fosse ormai divenuto un compito troppo gravoso.
Elena c’è arrivata per prima, circa due anni fa. Una grave forma depressiva sfociata successivamente in demenza senile, l’aveva ormai portata lontano dalla realtà e dalla percezione di sé e degli altri. Era stato doloroso allora per Paola risolversi al ricovero, accettare quel distacco e, soprattutto, dividerla da Fausto, suo compagno da più di sessant’anni. Ricordo ancora quando la stessa Elena mi aveva raccontato di come al loro matrimonio, tra i tanti generi di prima necessità che avevano ricevuto in dono (caffè, pasta, zucchero e altro, come allora si usava) c’erano state 2500 uova, che avevano poi venduto alla spicciolata ricavandone un discreto gruzzoletto. “Erano tempi poveri ma felici”, mi aveva detto allora, “mancavamo di tutto, ma potevamo considerarci ricchi e fortunati se avevamo una famiglia ed una qualche occupazione che ci desse da vivere. Da ragazza avevo una bellissima voce, avrei potuto diventare una cantante. Feci anche un provino, ma poi i miei genitori ebbero paura di lasciarmi andare, di affidarmi ad un mondo troppo grande e diverso rispetto a quello piccolo, sicuro e confortevole che offriva il nostro piccolo paese.”
Fausto ha fatto il sarto per una vita, iniziando quand’era ancora un ragazzino. Ha cucito completi da uomo, vestiti da sposa ed ogni altro tipo di capo d’abbigliamento con grande precisione e maestria. Ha continuato a stringere gonne e ripiegare orli finché la vista glielo ha consentito, chiudendo definitivamente la porta della sua bottega quand’era ormai già grande, ben oltre gli anni della pensione.
Da allora le sue giornate sono trascorse tra tv, partitelle a scopa con Paola, bisticci con Elena che – finché la malattia non l’ha sopraffatta – ha continuato a mantenere quei modi autoritari e fermi che l’avevano sempre caratterizzata.
Fausto ha lasciato la sua casa appena un mese fa, per essere a sua volta ricoverato presso la R.A. Le sue esigenze di cura e assistenza erano diventate negli ultimi mesi ben più gravose e Paola non aveva trovato nessuna badante disposta a darle una mano. Aveva dovuto così ulteriormente restringere i suoi bisogni per adattarsi a quelli del genitore, e tutto aveva finito per diventare complicatissimo, persino il doversi assentare da casa per i dieci minuti necessari ad andare in farmacia a rifornirsi di medicine o fare la spesa. La soluzione del ricovero era stata infine inevitabile.
Il dolore di Paola è stato allora ben più grande di quello provato quando aveva dovuto lasciar andare sua madre, la cui mente se n’era comunque già andata da tempo e questo bastava a darle la consolazione che nemmeno avrebbe compreso di trovarsi in un luogo diverso e tra altra gente.
Ma per Fausto era diverso: lui era ancora in senno, lucido, e Paola temeva che quel distacco potesse essergli fatale. Riservato com’era, sempre di poche parole, avrebbe senz’altro finito col chiudersi ancor di più nel suo silenzio, abbandonarsi alla solitudine ed alla nostalgia, indifferente alle cure ed alla presenza di persone che per lui sarebbero rimaste comunque estranee.
Quando ho varcato quel cancello, qualche giorno fa, non sapevo ancora quale forte emozione mi era in serbo.
Una dottoressa molto garbata e cortese ha sottoposto me e Paola ad un tampone rapido, nonostante fossimo entrambe munite di green-pass: una precauzione necessaria, vista l’età degli ospiti e la delicatezza della struttura, mi spiegava.
Solo dopo, dunque, due operatori hanno accompagnato, l’uno dopo l’altro, Fausto ed Elena nel giardino dove li attendevamo.
Si sono seduti accanto, lui sulla panchina, lei sulla sua sedia a rotelle. Erano entrambi puliti, ordinati, curati di tutto punto e ben vestiti.
Il viso di Paola si è illuminato nel vederli; li ha abbracciati forte, continuando a farlo a turno mentre gli parlava, rivolgersi loro con la stessa dolcezza e la stessa allegria con cui l’avevo vista sempre trattarli.
Ma Fausto ed Elena erano spenti. Lei, chiusa nel suo perdurante silenzio indotto dalla malattia, reagiva solo alle richieste di Paola di abbracciarla e darle un bacio, che altrimenti si limitava a ricevere. Lui era altrettanto muto e silenzioso, ma non perché soffrisse, o, almeno, non a causa di una malattia: la sua sembrava piuttosto una precisa scelta, una condotta motivata dall’unico desiderio ormai rimastogli: lasciarsi andare. I suoi occhi tristi e ormai appannati non si accendevano nemmeno per un accenno di sorriso; sembrava che stesse lì in attesa di nulla, rassegnato al trascorrere delle ore, senza emozioni, senza vita.
Paola ha provato in più modi di suscitare il suo interesse con qualche argomento di conversazione, ma le risposte sono state solo brevi ed appena sussurrate parole, senza calore e senza intenzione.
Ho pensato a quanto possa considerarsi ingiusta l’esistenza quando costringe a vivere; quanto forte possa essere il dolore di un figlio che veda consumarsi giorno dopo giorno la vita che gli ha dato la vita; quanto possa far sentire impotenti assistere allo spegnersi d’ogni interesse, emozione, volontà senza aver più strumenti per riaccenderli; quanto sia difficile non sentirsi in colpa benché si abbia la certezza di aver fatto ogni cosa possibile.
Paola è rimasta seduta in mezzo ai suoi genitori per tutto il tempo che gli operatori della struttura le hanno consentito. A tratti mi è sembrato di rivederla bambina; più spesso sembrava che i ruoli si fossero invertiti e che stesse lì per rassicurare Fausto ed Elena, come loro avevano fatto con lei tanto tempo prima: non preoccuparti, ci sono qua io.
L’ultima immagine che mi è rimasta, quando, varcando di nuovo al contrario il cancello d’ingresso, mi sono voltata un’ultima volta, è stata quella di Elena che, quasi riemergendo da quel luogo lontano dov’è confinata la sua mente, allungava una mano per stringere ancora una volta quella di Fausto.
È stato allora che, scorgendo il dolore profondo ed autentico inciso sul volto di Paola, ho lasciato che le mie lacrime si unissero alle sue.