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Refusnik

Autore: Ester Annetta
Mentre nel nostro Paese si assiste al tentativo di includere in qualche programma elettorale (che già di per sé pecca gravemente di inconsistenza) la proposta di ripristinare la leva obbligatoria, spacciandola come un efficace strumento educativo, altrove c’è invece chi rifiuta di sottostare al corrispondente obbligo, pur nella consapevolezza delle conseguenze.

Accade esattamente in Israele, dove è ben lontana l’idea che la leva possa avere uno scopo diverso da quello di preparare alla guerra e, anzi, urge essere sempre pronti ed addestrati, poiché i conflitti non sono ipotetici o futuribili ma concreti e attuali.

Li chiamano “refusenik”, e sono i tanti ragazzi – poco più che adolescenti – che rifiutano di arruolarsi nell’esercito come segno di protesta contro l’occupazione e l’oppressione del popolo palestinese.

E tuttavia l’esercito israeliano non li considera obiettori di coscienza; il diritto all’obiezione è difatti consentito soltanto in nome del pacifismo e del rifiuto di ogni forma di violenza, mentre tale non è considerata la contrarietà all’occupazione, che è anzi vista come una forma di opposizione politica, un “rifiuto selettivo” che, perciò, non consente l’esenzione dalla leva.

“Refusenik” equivale, perciò, a “dissidente”; e dal momento che la leva militare è obbligatoria per la maggior parte degli ebrei israeliani (sia uomini che donne), il rifiuto di arruolarsi senza l’approvazione dell’esercito è reato e, come tale, punibile con la reclusione.

Non sono stati pochi gli adolescenti israeliani che, pur nella consapevolezza di una tale conseguenza, hanno rifiutato il reclutamento, nella ferma convinzione che «l’esercito porta avanti la politica razzista del governo, che stabilisce un sistema legale per gli israeliani e un altro per i palestinesi nello stesso territorio», come hanno scritto alcuni anni fa - in una lettera aperta al primo ministro Netanyahu - sessantatré di loro, denunciando altresì gli effetti del militarismo sulla società israeliana: “che portano ad adottare come valore centrale le soluzioni violente invece della pace e il rafforzamento del capitalismo e della dipendenza dagli aiuti militari americani come conseguenza dell’occupazione.”

E accade ancora; un pò più di rado rispetto a qualche anno fa, ma accade.

L’ultima volta all’inizio del mese. Di nuovo quattro adolescenti israeliani – di 18 e 19 anni- sono andati al Centro di reclutamento dell’IDF (le Forze di Difesa Israeliane) a Tel Hashomer, nel centro di Israele, per rifiutare la coscrizione in segno di protesta contro l’occupazione e l’Apartheid.

È previsto, in questi casi, un processo pressoché immediato presso lo stesso Centro ed una conseguente condanna a pene detentive comprese tra 10 e 21 giorni, al termine delle quali si è nuovamente chiamati a riferire le proprie intenzioni. Se il rifiuto di arruolarsi persiste, scatta nuovamente la reclusione per altrettanti giorni, e così via. Sicché i dissidenti possono spesso trascorrere mesi in prigione per diversi periodi consecutivi, fino a quando l’esercito non decide di congedarli.

A leggere la loro intervista ci si sente piccolissimi, tanta è l’assennatezza, la profondità delle convinzioni e l’ardore con cui quei quattro ragazzini espongono le loro idee, interpretando il pensiero della loro generazione che, seppur nata e cresciuta nella culla di una lunga e sanguinosa rivalità, ha la lucidità di coglierne l’irrazionalità e l’ingiustizia.

In prigione ci vanno con fierezza, senza chinare il capo né abbassare lo sguardo.

Hanno la sicurezza – affatto ingenua né illusoria, a dispetto della loro età - di chi sa di essere nel giusto e mantiene ferma la volontà di battersi per raggiungere l’obiettivo di un cambiamento, nella speranza che la propria azione ispiri e guidi quella collettiva.

Sono giganti-bambini. Immensi.

Dalla linearità delle loro argomentazioni e dalla coerenza delle loro idee anche tanti nostri (pavidi) “adulti” farebbero bene a trarre esempio ed ispirazione, specie quando nascondono il discrimine sotto la veste della sicurezza.

Non rischierebbero, peraltro, alcuna accusa di dissidenza, e, perdipiù, starebbero al riparo dal sembrare ridicoli.

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