Un’efficace espressione utilizzata nel linguaggio popolare nella mia terra d’origine definisce “male per giovamento” tutte quelle situazioni in cui una condizione negativa iniziale, col procedere degli eventi, finisce per rivelarsi un pretesto o un presupposto per giungere ad un risultato positivo. In una dimensione più circoscritta coincide, in sostanza, col più noto “non tutti i mali vengono per nuocere”, ove per male non si intendano sciagure né alcunché di particolarmente drammatico ma soltanto una situazione complicata o non gradita.
Uno di quegli strani meccanismi mentali che sovente rimandano ad apprendimenti talmente lontani da sembrare, più che eredità culturali, vere e proprie sequenze genetiche di cui si nasce già dotati, me l’ha riportata alla mente, quando mi sono trovata, mio malgrado (e per sole ragioni di “logistica da vacanza”) a dover tornare in un luogo da cui mancavo (e senza alcun rimpianto) ormai da diversi anni.
Capita spesso che luoghi che si frequentano con una certa cadenza e per periodi piuttosto regolari “assorbano” il malessere generato dalla sensazione di sentirsi quasi costretti a restarvi. Accade quando non li si percepisca come propri poiché non fanno parte del proprio passato e del proprio vissuto ma sono stati acquisiti nel pacchetto ricevuto in consegna quando sono state operate scelte di vita che abbiano importato condivisioni e adesioni ad abitudini, tradizioni e ambienti non propri. La bendisposizione iniziale – mutuata perlopiù dalla intensità del sentimento anch’esso in fase iniziale - col tempo, scopre l’insofferenza ed il disagio, specie ove quello stesso sentimento inizi a prendere una piega negativa, con la conseguenza che quei luoghi vengano avvertiti addirittura come un confino, un posto dove ci si sente esiliati e forzati a restare, sradicati dai propri bisogni e dalle proprie intime necessità.
Diventa allora inevitabile perdere l’obiettività, diventare ciechi e sordi, restare sospesi in una condizione d’attesa esacerbata, dove il solo obiettivo diventa la sottrazione dei giorni che mancano alla partenza da un “territorio straniero”.
Si indossano occhiali scuri che schermano la luce ed i colori; si ignorano i suoni e gli odori; si nega la bellezza della natura intorno; si trattano le persone (che mai si giunge a classificare come “amici”) con sufficienza o in modo scostante, come a voler impedire che si passano creare intimità e confidenza, traducendo in fastidio anche il semplice scambio di convenevoli. E si fugge – concretamente o metaforicamente - aggrappandosi ad ogni occasione che consenta di estraniarsi, di trincerarsi nella propria sofferta solitudine e nel proprio malessere.
Sono luoghi che - una volta girata pagina e lasciati qualche foglio più indietro nel registro della propria esistenza – non mancano, non diventano territorio di nostalgia e quasi si cancellano da ogni latitudine geografica e sentimentale. E quasi si tira un sospiro di sollievo al pensiero che non si debba più considerarli un’appartenenza, che non si debba più sentirli come il corredo d’un vincolo che, cessato d’essere di cuore, sia divenuto solo di forma a tratti frammisto a coscienza.
Poi però accade che, a distanza di tempo e del tutto involutamente in quegli stessi luoghi si torni, quando una ritrovata serenità abbia ormai cauterizzato vecchie ferite e fornito nuove lenti attraverso cui si notano contorni e forme diversi.
Liberi da condizionamenti, da imposizioni mentali, da vincoli, si acquisisce allora la lucidità di vederli per ciò che realmente sono. La bellezza del paesaggio allora prorompe, le forme, i colori e gli odori tornano ai sensi nella loro realtà, senza sbavature, inganni ed alterazioni.
Gli orizzonti tornano ad essere l’inizio dell’infinito e non più il confine del nulla e ci si sorprende nel ritrovare il sorriso di volti dimenticati, anonimi, cui di nuovo si assegna un valore ed una identità.
Ricordo un mio vecchio amico che aveva elaborato la “teoria dell’autorisoluzione dei problemi” secondo cui, di fronte ad una difficoltà che apparentemente sembra insormontabile, basta farla decantare, seminare un certo tempo di distanza tra sé ed il problema, per accorgersi che, guardandolo da una diversa prospettiva appare in realtà meno complicato che a prima vista. È come se esso stesso offrisse, dunque, la soluzione, in diretta applicazione del noto adagio: “il tempo è rimedio ad ogni cosa”.
Ho sempre creduto che il tempo non abbia alcun effetto terapeutico né tanto meno taumaturgico, ma, all’opposto, sia invece la capacità – tipica d’ogni essere umano – d’adattarsi alle diverse situazioni e condizioni a consentirgli di utilizzare il tempo come strumento per rimodularsi, adeguandosi al nuovo stato di cose.
E ciò, in ultima analisi, altro non vuol dire che reinventarsi e, soprattutto, riscoprirsi.
Ogni situazione nuova, ogni dilemma o problema, richiede l’”approccio del viandante”: deve cioè compiersi un percorso, un cammino, il cui traguardo è rappresentato dalla soluzione del problema. Eppure, una volta giunti alla soluzione, sarà agevole accorgersi che ciò che davvero sarà stato importante e risolutivo non sarà stato la meta raggiunta ma il tragitto impiegato, i bivi in cui ci si è imbattuti e la scelta della direzione da seguire, gli ostacoli, i guadi e gli imprevisti che si saranno affrontati e risolti.
È al termine del cammino che si vede la destinazione completa, ma i suoi tratti si sono già delineati strada facendo.
Ecco, io ho forse compiuto un cammino, un percorso fatto di tempo, pensieri e riflessioni, al termine del quale sono tornata in un luogo che già conoscevo che, tuttavia, ho forse visto davvero per la prima volta.
Ho visto paesaggi, forme e volti che mi erano noti, eppure è stato come riscoprirli; nel mio andare, ho lasciato cadere le bende che costringevano i miei sensi, lasciando che finalmente catturassero quanto era intorno finalmente liberi, autentici, incondizionati; ho ritrovato spazi, luoghi e persone perché in realtà è me stessa che ho ritrovato.
Che questa stagione di sole e di luce possa allora essere per chiunque ne abbia bisogno il “tempo” giusto per rischiarare il cammino che giunge a ritrovare e a ritrovarsi.
Buona estate!