All’alba d’un gelido mattino d’inverno due terre a oriente del Mediterraneo hanno cambiato aspetto e geografia. Il suolo ha tremato per lunghi, inarrestabili, secondi con un impeto paragonabile solo alla deflagrazione di qualche ordigno nucleare ed alla devastazione che ne consegue: intere città distrutte, migliaia di morti, un numero ancora imprecisato di feriti e dispersi. Neppure i danni hanno ancora una stima ben precisa, giacché le scosse hanno continuato a susseguirsi insieme ai crolli dei palazzi che, come pedine di un domino, si sono abbattuti al suolo mentre si tentava la salvezza nella fuga.
La tragedia – infida - è arrivata nel sonno, quando ogni allerta o difesa sono abbassate. Ha agito come un ladro scaltro, cogliendo alla sprovvista, depredando esistenze senza lasciar scampo. Il passaggio dalla vita alla morte è durato il tempo di quell’inatteso e brusco dondolio con cui la terra ha cullato moltissimi suoi figli addormentandoli per sempre.
Poi, quando il tremito è cessato, il buio ha lasciato il posto alla luce e, con essa, si è disvelato ciò che restava: cumuli di macerie, frammenti irriconoscibili di costruzioni inginocchiatesi al sisma e infine ricadute su sé stesse; polvere e fumo; neve e gelo. Su tutto, un pesante e doloroso silenzio, solo a tratti interrotto da sirene, richiami urlati in direzione di qualcosa che fino a qualche ora prima c’era; nomi ripetuti senza risposta; pianto.
E, ancora, la solitudine. Quella di chi, troppo confuso e incredulo, si è ritrovato ad aggirarsi come uno spettro tra le rovine, illuso di poter ancora cogliere un suono che sapesse di vita, una voce o anche solo un fiato che fosse ancora respiro e non agonia.
“Non bastava la guerra, non bastava la povertà, ora il terremoto”: lo ha detto padre Bahjat, il parroco latino di Aleppo, ma è quello che forse abbiamo pensato tutti, come se, di colpo, questa protesta della natura avesse voluto sollecitare la riflessione su quanto sia illuso chi, crogiolandosi nel proprio potere, creda di poter dominare sulle sorti d’un popolo, salvo a scoprirsi poi altrettanto debole ed indifeso.
Turchia e Siria, l’infierente e la resistente: due terre in bilico su un comune confine che anziché avvicinare divide.
La Siria già prima del terremoto non esisteva più, lacerata da una guerra intestina che dura da oltre dieci anni, ridotta ad un cumulo di macerie, di morti e di sfollati. Su quelle rovine si è steso il tappeto di gioco su cui la Turchia ha condotto la sua partita come pedina (suo malgrado) delle due potenze contendenti di sempre. Sotto l’egida statunitense, nel 2016, aveva occupato il nord della Siria, dichiarando la necessità di dover difendere il proprio territorio dalle minacce jihadiste dell’ISIS e dalle Unità di Difesa del Popolo (YPG), gruppo armato dei curdi siriani ritenuto un’organizzazione terroristica. La Russia a sua volta aveva intensificato la sua presenza militare in Siria rispondendo alla richiesta di aiuto del presidente Bashar al-Assad. Poi, col ritiro degli USA dalla partita, è rimasta solo Mosca a frenare le pretese di Erdogan (che vorrebbe condurre un’operazione militare in Siria contro le forze curde ritenute terroriste), nel tentativo di favorire il dialogo tra i due Presidenti, ma non certo per filantropia, quanto piuttosto perché dalla composizione dei rispettivi interessi ne trarrebbe giovamento il proprio ruolo in medio oriente.
Chissà, forse allora è da prendere come un segno questa comune catastrofe che infierisce allo stesso modo sulle due terre, accomunandole in uno stesso, prepotente, destino di devastazione che stavolta non ha nulla di umano e sembra quasi ammonire sulla necessità di dover fare i conti con eventi ed epiloghi che sfuggono alla pretesa di qualunque controllo.
E se non basta la portata generale della tragedia a rapprendersi alle coscienze, lo facciano allora le singole storie, i singoli volti, i singoli drammi di famiglie smembrate o di bambini rimasti soli al mondo; lo facciano le immagini che descrivono la distruzione di case e destini attraverso brevi fotogrammi di identità ormai scomparse; lo facciano soprattutto quei pochi, spiccioli eppure straordinari miracoli che dal buio e dal freddo di una trappola tra le macerie hanno insperatamente restituito luce e calore alla vita