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Autore: Ester Annetta
“È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”.

A questa celeberrima frase – riportata da Winston Churchill in un discorso tenuto alla Camera dei Comuni quand’era Primo Ministro britannico – suole legarsi l’assioma secondo cui, pur riconoscendosi che la democrazia è un sistema di governo altamente imperfetto, rimane comunque il migliore che sia mai stato creato dall’uomo.

Che così è, la storia l’ha del resto ampiamente dimostrato; e che tuttora così continui ad essere, appare evidente laddove ci si fermi ad analizzare le conseguenze che discendono dalle azioni dei capi di quegli Stati dove vigono ancora regimi totalitaristi e forme più o meno esplicite di dittatura.

Il conflitto russo-ucraino ha offerto l’occasione per confermare ancora la validità di questo enunciato di fronte all’evidenza delle tante limitazioni che si sono aggiunte alle azioni di guerra vere e proprie e che si sono tradotte in parossistici svilimenti della libertà personale, non solo quella fisica – com’è naturale che sia in luoghi dove le armi dettano legge – ma persino quella intellettuale.

La più eclatante è quella annunciata a inizio settimana, quando una comunicazione formale inviata “a tutte le autorità esecutive federali e alle autorità esecutive dei soggetti della Federazione Russa” dal viceministro dello sviluppo digitale, comunicazione e mass media Cernenko, ha disposto che “entro l’11 marzo tutti i server e i domini devono essere trasferiti nella intranet russa.”

La nota contiene indicazioni per spostare i server e i domini statali dall’internet globale a quello “nostrano”, cioè il network interno del paese slegato dal World Wide Web, ricorrendo all’utilizzo dei domini (DNS) localizzati sul territorio del paese, cancellando i codici Javascript legati a risorse esterne, non utilizzando hosting esteri, usando domini .ru e aggiornando le password attivando anche l'autenticazione a due fattori.

Il tutto, ufficialmente, al fine di proteggere i portali statali dai continui attacchi informatici effettuati ai siti russi dall'estero (in specie quelli annunciati a più riprese da Anonymus) - come ha dichiarato lo stesso viceministro – con ciò spiegando la necessità di prepararsi “per diversi scenari” e smentendo che sia invece in atto un piano per disconnettere Internet dall'interno.

Nonostante le dichiarazioni, sta di fatto, però, che questo potrebbe pur essere un primo passo per poi portare tutta la Russia – e quindi non solo i siti governativi – a staccarsi dalla Rete globale, così raggiungendo un obiettivo cui, in realtà, Putin lavora già da tempo, per l’esattezza da quando, nel 2019, firmò una legge per sviluppare “RuNet”, l’alternativa russa a internet, appunto, motivata, a suo dire, da quelle stesse ragioni di protezione da cyberattacchi.

È tuttavia facilmente intuibile quali sarebbero i pericoli derivanti da un siffatto “isolamento”: la chiusura totale del Paese, l’impossibilità di accedere alle notizie esterne ed il conseguente totale controllo dell’informazione, che resterebbe così dipendente esclusivamente dalla propaganda interna.

E tutto ciò avrebbe conseguenze evidentemente drammatiche per il popolo russo.

Qualcuno, nel ventilare tale rischio, è tornato a parlare di una nuova “cortina di ferro” dietro cui ancora una volta andrebbe a celarsi la Russia, proprio come all’indomani della seconda guerra mondiale prospettò lo stesso Churchill – frattanto divenuto ex primo ministro - cui si attribuisce la paternità di quell’espressione.

“Una cortina di ferro è scesa sull’Europa”: con queste parole, pronunciate in un discorso tenuto il 5 marzo del 1946 negli Stati Uniti (al Westminster College di Fulton, in Missouri), dove si trovava dopo aver perso le elezioni politiche in Gran Bretagna, fu difatti proprio Churchill a parlare per la prima volta del clima di “gelida ostilità” che, conclusosi il conflitto mondiale, aveva marcato la separazione tra l’America e i suoi alleati - il “mondo libero” - e il blocco comunista composto da Unione Sovietica e Paesi dell’Europa orientale (l’”Impero del male”, come l’avrebbe più tardi definito il presidente americano Reagan).

L’intento di quel discorso era in realtà di evidenziale come potesse ritenersi possibile un accordo tra le due super-potenze che avevano sconfitto il nazismo, ma, di fatto, quell’espressione fu ciò che colpì più di tutto e che passò alla storia, relegando in secondo piano il senso e il resto del discorso che, anzi, ancora oggi è considerato da alcuni storici come il punto di partenza della “Guerra Fredda”.

Perciò, parlare ancora oggi di “cortina di ferro” benché con riferimento a quella “schermatura” dietro cui, eliminando la propria “dipendenza” dalla rete globale, la Russia tenderebbe ad affermare la propria indipendenza, sacrificando di fatto la democrazia, fa pensare ad uno di quei ricorsi storici di vichiana memoria secondo cui, in una sorta di ciclo, il cammino dell’umanità è destinato a tornare dalla civiltà alla barbarie per poi risorgere ancora, in una ricorrente riproposizione degli eventi.

Se non fosse che, stavolta, la guerra che si combatte non è affatto fredda. La cortina scesa sull’Europa ha il colore del sangue, ed è in realtà abbastanza sottile e trasparente da lasciar vedere tutta la devastazione e la desolazione che inevitabilmente comporta un conflitto fatto di armi, esplosioni, vittime e di annientamento della democrazia.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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