Come accadeva durante la pandemia, quando, ogni sera, il capo della Protezione Civile dava lettura del bollettino dei contagi, dei morti e dei guariti, allo stesso modo, ora, dal Ministero dell'Interno ogni sera viene aggiornato il dato dei cittadini ucraini che, in fuga dal loro Paese, arrivano in Italia.
Mentre scrivo la conta è giunta a 21.095, di cui 10.553 donne, 1.989 uomini e 8.553 minori. L’aumento registrato rispetto al giorno precedente è di quattromila unità. Le principali città di destinazione continuano ad essere Roma, Milano, Napoli e Bologna.
Guardo le immagini che i vari canali – tv, social, testate online – trasmettono ininterrottamente, indirizzando quasi esclusivamente sul conflitto in atto l’intera informazione e soffermandosi perlopiù su dettagli, singole tragedie, che la cronaca più generale della guerra tende a non considerare.
Vedo, così, stazioni di partenza affollate, sulle cui banchine giovani padri - che l’amor di patria costringe a restare ed imbracciare le armi - combattono la più faticosa delle battaglie: quella di non abbandonarsi al pianto e fingere serenità mentre salutano mogli e figli oltre la trasparenza del finestrino d’un treno che li porta lontano.
Vedo stazioni d’arrivo, dove giungono donne sfinite e disorientate, che poco altro portano con sé oltre a un figlio al collo e un altro tenuto per mano; lunghe file di controllo e smistamento che ricordano quelle degli emigranti ad Ellis Island, appena approdati nella terra della speranza americana del dopoguerra; volontari che offrono cibo, coperte e parole di conforto; un pianista su una linea di frontiera che suona “Somewhere over the Rainbow” a voler dar coraggio ai tanti esuli che si sentono impauriti e smarriti.
Vedo parrocchie, case famiglia, palestre e centri d’ascolto in cui si organizzano catene di solidarietà per fornire accoglienza ai tanti profughi che, in questo momento, oltre alle mancanze materiali, patiscono quelle di un abbraccio, d’un sorriso, d’una parola che non sia un grido, un ordine o un allarme; gesti di vicinanza che annullano di colpo tutte le cautele e le distanze cui la pandemia ci aveva obbligati; stanze in cui si smistano viveri o pacchi di vestiti, che vengono ordinati sui ripiani di scaffali ben etichettati: 3-4 anni, 6-8 anni, 10-12 anni, uomo, donna, intimo.
E bambini. Ancora bambini. Bambini di ogni età, ai quali in quei luoghi d’esilio e d’accoglienza si tenta di far ritrovare la serenità, con un’altalena, una palla, una bambola.
Li vedo sorridere, quasi felici, quasi spensierati come se, lontano dalle sirene, dalle bombe e dei caccia che sfrecciano sulle loro teste, avessero ritrovato la tranquillità e messo da parte la paura.
Bambini da accudire; da curare nell’anima e nella mente; da proteggere. Vittime indifese ed innocenti, cui sono mancate promesse e sottratti sogni.
Eppure capita che a vote i ruoli si invertano e che siano proprio loro ad offrire conforto agli adulti dei quali forse percepiscono lo sforzo nel dissimulare la disperazione e nascondere il pianto.
C’è allora la storia di un piccolo “eroe della notte”, un cavaliere senza macchia e senza paura di appena undici anni, che da solo percorre mille chilometri dall’Ucraina alla Slovacchia per raggiungere i parenti che lo terranno al sicuro. Ha con sé solo un sacchetto di plastica con qualcosa da mangiare, il suo passaporto e un numero di telefono scritto sulla mano, che sta attento a non far scolorire. Il sorriso fiero che lo immortala in una foto appena giunto a destinazione pare rivolto a rassicurare la mamma che è dovuta rimanere a prendersi cura della sua di mamma, disabile e malata. Anche il suo papà, che non c’è più, sarebbe stato fiero del suo ometto.
E poi c’è ancora una bimbetta di circa cinque anni che, in un rifugio sotterraneo dai soffitti bassi, lungo le cui pareti corrono tubi e fili e la luce è quella fredda di un neon, sale su un appoggio da cui può sentirsi più in alto, come su un palcoscenico, e con la sua vocina sottile e dolcissima intona “Let it go”, il tema del suo cartone preferito, per intrattenere gli altri bambini rifugiati lì con lei. Non sa che le sue note e le parole di quella canzone, che invitano a lasciar andare via il male, a sperare e a ritrovare la libertà sono una medicina anche per i grandi, che l’ascoltano in totale silenzio, attenti a che nemmeno il loro pianto sommesso la interrompa.
Sono raggi di luce nel buio della paura, abbracci di calore nel freddo d’un inverno della ragione e sembrano dire che in loro, i bambini, germi del domani, vale ancora la pena di confidare per un futuro migliore.