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Squid game e l’allegoria della realtà

Autore: Ester Annetta
Chi ha visto “Parasite”, la pellicola sudcoreana che nel 2020 non solo è stata la prima ad aver mai ottenuto una candidatura al Golden Globe ma ha persino vinto l’Oscar come Miglior Film, ricorderà come centrale fosse nella trama la descrizione pungente ed incalzante della parabola sociale di una famiglia che si riscattava da un profondo disagio economico aggrappandosi, come un parassita, appunto, ad un’altra ricchissima. Sullo sfondo, il disegno d’una società in cui il contrasto tra ricchezza e povertà veniva tracciato con tinte varie e forti, in cui si mescolavano ironia, tristezza ed orrore.

È la prima associazione che viene in mente guardando “Squid Game”, la nuova serie sudcoreana scritta e diretta da Hwang Dong-Hyuk che sta letteralmente spopolando su Netflix e che, alla data della sua uscita (il 17 settembre scorso) è in men che non si dica balzata al primo posto della classifica di quelle più viste, battendo persino un gigante qual è “La casa di carta”.

Non sono un’amante delle serie tv e se ne conosco i titoli e - per sommi capi - la trama è solo perché ne sento parlare i ragazzi a scuola o i miei figli a casa. A volte mi è capitato perfino di soffermarmi a guardare qualche sequenza o interi episodi di quelle più note (come durante il lockdown, quando pur di condividere il divano con mio figlio minore ho accettato di seguire con lui qualche replica delle stagioni di Gomorra), ma senza mai arrivare al punto di farmene rapire o di voler esprimere giudizi sui contenuti ed i “retropensieri” che possano esserne stati d’ispirazione o farne da filo conduttore.

Non è stato così per Squid Game, che già dopo pochi minuti di visione sconcerta per la perfetta alchimia con cui quello che potrebbe essere un valido messaggio morale e sociale viene fuso con una serie di altri ingredienti – la violenza, in primis - col risultato di ricavarne una sensazione di inquietudine in cui non appare chiaro, inizialmente, se ad essere veicolata sia l’incitazione alla violenza o, viceversa, un monito sulle conseguenze dei vizi e dei tradimenti umani.

L’idea di base è assurda e geniale al tempo stesso, perché, con sottile metafora, da un lato pare sottolineare in maniera spietata ma efficace i lati oscuri e le trame nascoste dell’odierna società consumistica; dall’altra sembra estremizzare una sorta di modello “punitivo-soppressivo” riservato a chi non sia in grado di tenere testa agli urti della sorte e si arrenda ad un destino di perdente.

Lo schema è quello di un gioco – anzi, di una serie di giochi, da “Un, due, tre stella!” al tiro alla fune – alla fine dei quali è destinato a vincere il più furbo o forse il più cinico o forse il più cattivo, in una lotta serrata senza esclusione di colpi in cui la salvezza della propria vita dipende - letteralmente - dalla morte di tutti gli altri. E, difatti, tutti coloro che alla fine di ogni gioco avranno perso, saranno uccisi.

Vi partecipano inizialmente 456 persone, reclutate tra disperati che non hanno più nulla da perdere, persone che vivono ai margini della società e che non hanno alcuna prospettiva per il futuro: un uomo sommerso dai debiti che vuole riottenere la custodia della figlia; un broker che rischia la galera per aver utilizzato in proprio investimenti altrui, una profuga nordcoreana che vuole comprare una casa per starci col suo fratellino; un uomo anziano con un tumore al cervello che sfida la vita; un malvivente che fugge dagli strozzini e un immigrato pakistano che vorrebbe sostenere la sua famiglia. In palio ci sono un mucchio di soldi, un montepremi che aumenta in maniera inversamente proporzionale al ridursi dei partecipanti.

Sono stati approcciati da un uomo che, proponendo loro un semplice gioco, li ha persuasi sulla facilità di poter vincere un sacco di soldi sol che accettassero di seguirlo in un luogo misterioso, un’isola segreta dove, in un’ambientazione colorata e distensiva che ricorda quella dei parchi-gioco dei bambini, dovranno partecipare – senza possibilità di ritirarsi – a tutte le partite di quei giochi “senza frontiere” in cui, privati della loro identità, saranno solo numeri.

Nel corso di quella cattività, si creeranno inevitabilmente alleanze, contrasti e scontri fratricidi in cui altro sangue andrà ad aggiungersi a quello dei perdenti giustiziati alla fine d’ogni partita, quasi a voler rimarcare il processo di lenta e progressiva disumanizzazione che inevitabilmente accompagna la degradazione della dignità umana ed il bisogno.

Il tutto sotto gli occhi di una squadra di sorveglianti in tuta fucsia - incappucciati e con i volti coperti da una maschera su cui sono riportati un cerchio, un triangolo o un quadrato, addetti al ruolo di fucilieri incaricati dell’esecuzione dei vinti - e di un misterioso “padrone del gioco” che osserva da una serie di monitor l’avanzare delle partite, spegnendo, man mano che muoiono, le caselle su cui compaiono i volti dei giocatori.

I miei figli, l’uno dopo l’altro, come avviene tipicamente col sistema del passaparola, hanno fagocitato tutti e nove gli episodi previsti, giungendo rapidamente al finale (l’ultimo gioco è “il gioco del calamaro”, realmente molto diffuso tra i bambini coreani), nonostante – ed è questa l’ulteriore peculiarità – la serie non sia stata doppiata in italiano ma venga offerta in inglese (peraltro, molto basico ed essenziale) con i sottotitoli in italiano.

Il racconto è terribile, temerario ed estremamente cruento.

Ma, superata la repulsione iniziale, il dispetto – quasi – prodotto dalla visione di tanta violenza che pare di primo impatto eccessiva e gratuita, forse è davvero possibile cogliere il messaggio – marcatamente provocatorio – che il regista ha voluto veicolare.

Come già era accaduto con Parasite, dove in qualche misura la carneficina era parsa l’extrema ratio contro le disuguaglianze, qui pure l’argomento è dello stesso genere: le disuguaglianze, nella società odierna, sono ancora una fenomeno vivo e non debellato ed il denaro ha ancora il potere di comprare la libertà delle persone, di trascinarle negli abissi più profondi dell’abominio dove si può ripudiare ogni cosa – la fedeltà, l’amicizia, l’amore – per riscattarsi.

Il gioco diventa dunque lo strumento per un esperimento sociale, volto ad evidenziare quanto anche la vita vera sia in fondo una partita in cui il costo della vittoria può pagarsi, all’occorrenza, anche col tradimento, il compromesso, la corruzione, e come alcune storture ormai strutturate nell’indole umana solo apparentemente possono essere vinte, poiché il rischio di una ricaduta persiste inesorabilmente.

C’è allora da augurarsi che ai tanti adolescenti rapiti da “Squid Game” giunga questo messaggio, che non si soffermino alla superficie, cedendo al solo fascino della trasgressione, del gioco e della violenza e colgano invece le intenzioni che l’autore della serie ha voluto, quando ha egli stesso dichiarato, lanciando forse la sua più grande scommessa: “Volevo scrivere una storia che rappresentasse un’allegoria o una favola sulla società capitalistica moderna, che descrivesse una gara estrema, un po’ come la vita”, scegliendo perciò di utilizzare, non a caso, i giochi dell’infanzia come prove da superare.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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