Una recentissima disavventura - a causa della quale ho ancora un palco di metallo che mi immobilizza l’arto superiore destro - mi ha offerto l’occasione di tastare con mano la realtà sanitaria nazionale, in un frangente ormai lontano dalle condizioni d’emergenza pandemica.
Partivo dal pregiudizio nutrito dalle ricorrenti notizie di inefficienze e inadeguatezze delle nostre strutture ospedaliere e, dunque, mi prefiguravo il pronto soccorso (nello specifico quello del policlinico Umberto I della capitale) come una bolgia di dannati abbandonati nei corridoi, su lettighe provvisorie, per un tempo indefinito, privi d’ogni assistenza e accudimento.
La realtà, difatti, non è andata molto lontana dall’immaginario, ma solo al primo impatto. Dopo di che è stato chiaro che c’è molta più (tragica) apparenza che sostanza.
È vero: ci sono pazienti che sostano su lettighe lasciate lungo i muri di immensi corridoi; altri seduti su postazioni precarie o su sedie a rotelle incustodite in attesa di qualcuno che li conduca altrove; portantini in divisa color mattone che percorrono a passo veloce quegli spazi affollati passando da un corridoio all’altro e, altrettanto, fanno infermieri con mute verdi che entrano ed escono da misteriose stanzette in cui si celano altrettanti ambulatori.
Ho potuto sbirciare l’interno di uno stanzone dov’erano affollati una decina di letti con pazienti appesi a flebo o cannule d’ossigeno; da lì provenivano i suoni più vari, di grida o lamenti. Su tutti, le urla di una donna che inveiva contro gli infermieri. Diceva che le avevano rubato delle chiavi e che lì dentro erano tutti ladri. D’un tratto è fuggita nel corridoio: era nuda, si era strappata gli aghi che le avevano infilato nelle braccia, il corpo, scheletrico, era pieno di tumefazioni. Il suo stato di confusione era chiaramente dovuto ad una condizione di tossicodipendenza. Tre infermiere le sono corse dietro. L’hanno fermata, provando a tranquillizzarla con parole pacate; ma di fronte alla sua resistenza non hanno poi potuto far altro che trattenerla per le braccia e riportarla in corsia. Di lì a poco è scappata una seconda volta, per poi essere ripresa e calmata, con un linguaggio che sembrava più adatto ad una bambina che non ad una donna di più di trent’anni qual era, ma ormai inebetita nella mente e devastata nel corpo dal veleno da cui dipende.
I camici bianchi sono invece quelli dei medici. Anche loro vanno avanti e indietro dalle porticine misteriose degli ambulatori, dispensando istruzioni ai portantini: “la signora va in sala raggi; quel signore, invece, nell’ambulatorio ortopedico…”
E’ un formicaio, in cui ogni singolo individuo ottempera ad un preciso compito, con una continuità, un’abnegazione e una dedizione che contrasta in maniera stridente e decisa con la sensazione di abbandono che si percepisce a prima vista.
Si, ci sono attese, ma solo per chi può aspettare. Le condizioni che richiedono priorità sono individuate ed adeguatamente trattate, anche se il posto in reparto non è immediatamente disponibile: anche lì, nel mentre sostano in corridoi di transito o nei saloni-corsia d’emergenza i pazienti vengono sottoposti agli esami che si rendono nel frattempo necessari.
Nessuno si lamenta di dover attendere o reclama d’esser stato dimenticato, come se solo lì, in quella realtà concreta che vive in prima persona, si rendesse finalmente conto dell’esistenza di un meccanismo che, tra mille mancanze e difficoltà, continua a funzionare nel modo migliore possibile.
Quand’è stato il mio turno di andare in reparto per il ricovero preoperatorio, mi è toccato fare il tragitto a piedi. Mi hanno affidano ad un giovane portantino che si è subito scusato per non esser riuscito a trovare una sedia a rotelle con cui trasportarmi e mi ha fatto strada tra i lunghi corridoi sotterranei che fungono da passaggio tra i vari padiglioni. E’ strano come anche il solo movimento delle gambe necessario a camminare si riverberasse sul resto del corpo e finisse proprio lì, a dolere sulla spalla rotta. Il ragazzo dev’essersene accorto perché, con discrezione, ha corretto la sua andatura cercando di adattarla a quella che per me risultasse meno fastidiosa. Una premura che non mi aspettavo e che quasi mi ha commosso.
Quando finalmente sono arrivata in reparto, nella stanza assegnatami, al letto evidentemente da poco liberatosi tra i quattro presenti, è stato improvvisamente chiaro dov’è il guasto reale di quell’ingegnosa macchina: mi serviva un’attestazione di ricovero, una certificazione da inviare all’Ente di previdenza, un documento che giustificasse nell’immediato la mia assenza da dove avrei dovuto essere. Ed è lì che il meccanismo si è inceppato. Ne avrei avuto conferma anche nei giorni a venire, quando il foglio sarebbe arrivato, ma sbagliato, e i dati intanto trasmessi non sarebbero più stati rettificabili se non facendo un’apposita segnalazione all’ente previdenziale cui era stato frattanto inviato. E ancora dopo, quando sarei stata alle prese con le medicazioni settimanali una volta tornata a casa: tempi biblici per riuscire ad ottenere una prenotazione telefonica; casse per pagare il ticket dove impiegati scocciati rivelano che il computer è bloccato e suggeriscono di usare l’apposita App che neppure loro sanno dire quale sia; tempi d’attesa inenarrabili per avere un’attestazione di avvenuta prestazione che, all’opposto, viene erogata in maniera rapida ed efficiente.
Eccolo il vero male della Sanità: una burocrazia lenta ed impacciata che si aggiunge al sacrificio di spazi, di mezzi, di personale e al dilatarsi di tempi d’attesa improponibili, di fronte ai quali collassa anche la logica dell’urgenza.
All’opposto, però, c’è la resistenza strenua ed immediata di un esercito sempre più ridotto di professionisti d’ogni grado e livello, che con coscienza, competenza e grande umanità, fedele ad un giuramento che non lascia indietro nessun bisognoso di cure, schiera in campo tutte le sue forze, fornendo il massimo risultato con la minima ricompensa.
Lo si è ripetuto in maniera parossistica durante l’emergenza pandemica: che mai più sarebbe stato replicato l’errore dei tagli, del sacrificio di stanziamenti a favore d’un servizio che ovunque non ha eguali, che beneficia realmente ogni cittadino lasciando a suo carico una spesa esigua e che, per contro, di spese a proprio favore ne incamera ben poche. Mai più turni di lavoro massacranti; strutture e strumenti obsoleti o, viceversa, impianti d’ultima generazione lasciati a deperire come cattedrali nel deserto perché manca chi li faccia funzionare; stipendi ignobili a fronte di contratti ridicoli; deprezzamento dei meriti che porta a fughe di menti e portenti. Mai più tutto questo.
Ma passata l’emergenza ed archiviata la paura, la reclamata priorità ha perso terreno, e, nell’indifferenza generale di quanti hanno in fretta dimenticato, i guasti sono tornati in un’officina che ha ancora tempi lentissimi di riparazione.
La nuova manovra economica presentata in questi giorni si è mostrata come l’ennesima coperta troppo corta che da qualunque lato la si tiri lascia qualcosa privo di protezione. Tre miliardi stanziati per la sanità, che dovrebbero avere come obiettivo principale la riduzione delle liste di attesa, coinvolgendo le strutture private accreditate e aumentando i compensi per medici e infermieri attraverso la detassazione degli straordinari, sembrano l’ennesima toppa – o meglio, l’espediente – che non accontenta nessuno, che offre un ingenuo contentino a quanti vogliano vedere il bicchiere mezzo pieno, illudendosi che, rispetto ai passati, è questo un intervento davvero straordinario, mentre invece soddisfa appena la minima parte delle più ampie e complesse esigenze che andrebbero affrontate.
La consueta miopia, il consueto bilancino su cui pesa meno il sacrificio richiesto ad un apparato che continua tuttora, quotidianamente, a lavorare in emergenza, rispetto all’inopportunità di dover ad ogni costo finanziare la spesa d’un ponte che quasi sembra il capriccio concesso ad un fanciulletto che, sventolando la bandiera europea, propugna la priorità di costruire castelli in aria.