«Di fronte alle sofferenze noi spesso vediamo e passiamo oltre, dimentichiamo. Vedere non basta, bisogna sentire, toccare.»
Sono parole di Papa Francesco, tra quelle pronunciate domenica scorsa, quando, con un gesto che, nella sua semplicità, ha avuto una portata rivoluzionaria, ha concesso una lunga intervista a Fabio Fazio durante la consueta puntata di “Che tempo che fa”.
Che si sia trattato o meno d’una intervista registrata, fatta qualche ora prima e debitamente sforbiciata e montata - come qualcuno ha insinuato, notando che l’orologio da polso del pontefice segnava un orario diverso da quello della puntata in onda - poco conta e nulla toglie all’importanza dell’evento: il papa che entra nelle case di tutti all’ora di cena, con l’umiltà che manca ai tanti virologi, politici, critici e opinionisti che quotidianamente popolano le emittenti, e risponde ai quesiti d’un conduttore indipendente dai canali vaticani, sdoganando così ogni protocollo ed ogni ufficialità.
Ancor meno la presunta falsa diretta può alterare il peso d’ogni parola, di quel tocco delicato eppure gravoso con cui temi quali la guerra, le migrazioni, l’ecologia, l’”aggressività sociale”, la solitudine e l’indifferenza sono stati tratteggiati e rimandati alle coscienze d’ognuno.
Parto allora proprio dallo spunto offertomi dall’affermazione iniziale, dall’esortazione del Papa ad aprire lo sguardo ed a toccare la povertà e la sofferenza dei meno fortunati, quelli che – citandolo ancora - è lecito “guardare dall'alto in basso solo per aiutarli a rialzarsi”, per ricordare che ci sono tante storie di dolore, legate talvolta ad una grande volontà di riscatto e di difesa della dignità, che resteranno perlopiù sconosciute, ma che non per questo si può fingere che non esistano.
Ad esse bisogna ispirarsi per porsi interrogativi che spesso non trovano risposta ma, tuttavia, sono significative della necessità di impostare un cambiamento di rotta che lasci indietro il territorio dell’indifferenza – radice prima d’ogni discriminazione e disparità e, per conseguenza, delle forme più esecrabili di sfruttamento e sopraffazione – per puntare al rispetto, all’eguaglianza, al riconoscimento paritario ed effettivo delle altre identità.
La storia di Roberto è una di queste, ed è forse un segno - più che una coincidenza - che appartenga all’adesso e non ad un tempo passato, quasi abbia voluto essere un prologo di quel messaggio, una testimonianza diretta ed immediata su cui è intervenuta la scelta del caso per toglierla da quell’ignoto in cui tante altre simili invece si perdono .
Aveva diciassette anni Roberto, ed era il più grande di tre figli. Sua madre, rimasta vedova molto giovane, tre anni fa aveva conosciuto un altro uomo, che le era sembrato buono e rassicurante, il punto fermo ideale da cui ricominciare una nuova vita per far crescere in serenità i suoi due figli orfani. Aveva funzionato per un po’, ma quando era rimasta incinta, l’uomo era sparito. Non era riuscita a sopportare quel nuovo dolore; ancor meno la disperazione di trovarsi con una bocca in più da sfamare, in quel misero villaggio mozambicano dove la povertà è il solo bene condiviso e l’aiuto della Missione che lo sostiene la sola mano tesa ad aiutare.
Si era sentita tradita, sola, colpevole e indegna. E si era allora tolta la vita.
I tre bambini erano rimasti con la nonna, affidati alle sue cure e a quel sostegno reciproco che solo nelle comunità più provate dall’indigenza e dalla mancanza sa essere autentico e concreto.
Sono stata in quella Missione alcuni anni fa, insieme a quel gruppo di “volontari di pace” cui ho già un’altra volta accennato (cfr “La guerra dei dieci anni” su Fiscal Focus del 20 marzo 2021). Non avevo conosciuto Roberto, allora, ma di ragazzi come lui ne avevo invece visti tanti, vittime di una orfananza che non è tanto quella che strappa agli affetti familiari, ma quella - ancora peggiore - che priva dell’identità stessa di esseri umani, destinando intere generazioni all’inciviltà ed all’ignoranza se a migliorarle non ci fosse lo sforzo di quanti scelgono persino di abbandonare le comodità e l’efficienza del mondo ricco e civilizzato per votarsi all’aiuto di chi ha il bisogno come ordinaria condizione di vita.
Mimmo è tra questi, e quel mal d’Africa che l’ha infettato tanti anni fa, quando per la prima volta volle “aprire il suo sguardo e toccare” la gente del piccolo villaggio sostenuto dalla Missione, lo ha reso padre e fratello di quegli ultimi tra gli ultimi, al punto che - benché a sostenerlo non ci sia un autentico afflato religioso ma, piuttosto, una fede “diversa” che ha forgiato secondo il suo sentire – ha deciso di restare.
Da quasi vent’anni – alternando la sua permanenza nel villaggio di Mafuiane con brevi ritorni in Italia, a Roma e nella sua Calabria – guida ed amministra la Missione: conosce i bisogni e le necessità d’ogni singolo e d’ogni famiglia, verso cui si prodiga con l’aiuto e l’assistenza necessari; forma ai mestieri; crea spazi ed attività da cui si possano ottenere mezzi di sostentamento o innescare piccoli circuiti economici; e, soprattutto – forte della consapevolezza che la cultura e la conoscenza siano i principali strumenti attraverso cui le nuove generazioni possono uscire dall’arretratezza e concorrere al miglioramento della loro condizione – supporta lo studio dei ragazzi più meritevoli che, terminate le scuole inferiori nelle strutture realizzate nel villaggio dalla Missione, grazie alle borse di studio che la stessa dispensa vengono messi in condizione di poter frequentare le classi superiori e perfino l’università nella capitale, Maputo.
Roberto quella borsa di studio l’aveva appena conquistata: si impegnava molto nello studio, perciò aveva avuto accesso alle scuole superiori d’un villaggio vicino che a breve avrebbe iniziato a frequentare.
Era un ragazzo promettente e, chissà, forse tra qualche anno avrebbe potuto dare a Mimmo – che ragazzo non lo è più da un bel pezzo - un aiuto considerevole nella gestione della Missione.
Per potersi portare avanti con lo studio prima di iniziare l’anno scolastico, aveva chiesto a Mimmo di poter utilizzare il computer collocato nel suo ufficio – “l’amministrazione” - quando non era utilizzato da Joanna, la ragazza che si occupa della contabilità e dell’inventario.
Perciò, ogni mattina alle 6.30, andava a svegliarlo per farsene dare le chiavi e vi restava fino all’arrivo dell’impiegata.
Una mattina di una settimana fa Roberto non ha bussato alla porta di Mimmo e nemmeno il giorno dopo.
Nella chat del gruppo wathsapp che noi volontari condividiamo con Mimmo è invece arrivato questo suo messaggio: “A volte ti sembra che tutto quello che fai sia inutile, tempo perso: erano due giorni che Roberto non mi batteva la porta alle 6.30 per le chiavi dell' ufficio, ma erano anche due giorni che non tornava a casa. Oggi lo abbiamo incontrato nella camera mortuaria di Boane freddo e insanguinato. Travolto da qualche vettura che non si è fermata. Non è giusto morire a 17 anni in questo modo.”
Le notti in Africa sono buie; i milioni di stelle che tappezzano il suo cielo non fanno tuttavia abbastanza luce da poter illuminare quelle strette fettucce d’asfalto stese nel nulla, e la pelle è troppo scura perché le sagome dei pedoni che camminano lungo il ciglio della strada possano distinguersi.
Chi ha investito Roberto forse nemmeno l’avrà capito che si trattasse di un essere umano; avrà pensato che fosse un animale selvatico o un cane, e nemmeno si è fermato.
Così il corpo di quel ragazzo, che era andato a piedi nel villaggio vicino per comprare uno zainetto per la scuola, è rimasto lì, insieme ai suoi sogni infranti.
Non abbiamo alcun merito per essere nati dalla parte "giusta" del mondo; ma forse un senso alla nostra vita – ovunque la impegniamo - possiamo darlo, vivendola con autenticità e, ancor più, con disponibilità verso gli “altri”, guardandoli negli occhi, toccando le loro mani e consentendo a quegli “altri” di toccare i nostri cuori, liberandoci così dal peccato dell’indifferenza.