Il disegno di un uomo sdraiato su un lettino, con in mano un paio di forbici con cui recide i fili che sorreggono tutti i suoi arti e che, solo nell’ombra proiettata sul pavimento accanto a lui, si vede che sono manovrati da una mano estranea, è l’immagine significativa con cui sul portale web dedicato viene presentato il quesito referendario sull’eutanasia attiva proposto dall’Associazione Coscioni.
A leggere soltanto il testo del quesito, specie se non si ha dimestichezza con le norma di cui il referendum propone la parziale abrogazione, ben poco si comprenderebbe; ecco, dunque, che alla domanda formulata fa seguito una precisa esposizione delle ragioni che sostengono la proposta referendaria, con tanto di spiegazione della distinzione (e del differente trattamento previsto nel nostro ordinamento) tra eutanasia attiva e eutanasia passiva: “L’eutanasia attiva è vietata dal nostro ordinamento sia nella versione diretta, in cui è il medico a somministrare il farmaco eutanasico alla persona che ne faccia richiesta (art. 579 c.p omicidio del consenziente), sia nella versione indiretta, in cui il soggetto agente prepara il farmaco eutanasico che viene assunto in modo autonomo dalla persona (art. 580 c.p. istigazione e aiuto al suicidio), fatte salve le scriminanti procedurali introdotte dalla Consulta con la Sentenza Cappato. Forme di eutanasia c.d. passiva, ovvero praticata in forma omissiva, cioè astenendosi dall’intervenire per tenere in vita il paziente in preda alle sofferenze, sono già considerate penalmente lecite soprattutto quando l’interruzione delle cure ha come scopo di evitare il c.d. “accanimento terapeutico” e sono state positivizzate dalla legge 219/2017 in tema di consenso e testamento biologico. La sentenza 242/2019 della Consulta sul Caso Cappato/Dj Fabo pur aprendo a determinate condizioni a una procedura lecita nell’ambito del suicidio assistito, consente alla persona di procurarsi la morte assistita solo in modo autonomo, ma se questa non vuole procedere da sola o non può – a causa di malattia totalmente inabilitante – rimane esclusa da questo diritto. Anche al fine di eliminare discriminazioni tra tipi di malati, emerge l’esigenza di ammettere l’eutanasia c.d. attiva.”
Com’è ormai noto, la Corte Costituzionale lo scorso 15 febbraio ha bocciato quel quesito referendario, ritenuto inammissibile perché: «a seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, cui il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili».
Questa cronaca funge da premessa ad una considerazione che nasce dall’evidenza di come – al di là dei tecnicismi, delle formule e delle motivazioni addotte – la partita di questa proposta referendaria si sia giocata anche su un diverso campo, in cui a scontrarsi sono stati, da un lato, l’ideale dell’etica e, dall’altra, quello della libertà, anche se a volte i loro confini si sono reciprocamente contaminati.
Non voglio – né ritengo di essere in grado di – assumere una posizione decisa riguardo all’una o all’altra di tali posizioni, ma esporne i tratti ricorrendo ad un criterio più empatico e meno politico, cercando di comprenderli basandomi sulla sola valutazione umana piuttosto che su quella tecnica, credo sia necessario.
Da questa prospettiva, l’alternativa pare allora porsi tra la scelta (in cui si combinano certamente ingredienti personali, etici e culturali) di resistere nonostante tutto, di accettare il dolore, la menomazione, la perdita totale di gran parte delle funzioni dell’organismo ed anche dei sensi e delle capacità espressiva in nome del rispetto per la vita che, comunque, ancora c’è, e il rispetto dell’autodeterminazione e di decisioni che portano in direzione diametralmente opposta, ove si consideri non-vita quella annientata da una malattia totalmente deprivante.
Da un punto di vista culturale, questa alternativa si traduce verosimilmente nella contrapposizione tra chi, sulla base del proprio credo religioso, ritiene che la vita dell'uomo sia sacra perché di diretta derivazione da Dio e, pertanto, non sia nella disponibilità degli uomini: la diretta conseguenza di tale posizione è la negazione totale dell’eutanasia ed anche delle dichiarazioni anticipate di volontà ai fini del trattamento sanitario di fine vita (che è cosa del tutto diversa dall'eutanasia); e chi – laicamente – ritiene invece che la dignità della vita umana sia un concetto ampio in cui rientra anche la libertà di poter disporre della propria esistenza quando sia divenuto insopportabile il dolore fisico e psichico determinato da una malattia irreversibile che l’abbia condannata alla totale ed inesorabile inefficienza.
È un contrasto, questo, che di certo la negazione di un referendum non eliminerà e, anzi, contribuirà a mantenere attivo sotto l’incalzante sollecitazione di tutte quelle associazioni e movimenti sostenitori della necessità dell’eutanasia, che, peraltro, quanto a sostanza finale, nemmeno pare differire troppo da quanto formulato nel disegno di legge sul fine vita, ora al vaglio della Camera, e che, chissà, forse potrebbe risentire di quell’esito.
Peraltro, riconoscere il diritto della persona a disporre della propria vita quando sia diventata un peso troppo gravoso a causa della malattia non significa incoraggiare il suicidio; né il principio assoluto di non disponibilità della propria vita da parte degli esseri umani deve tradursi in una totale negazione della libertà individuale, ove, tra l’altro, la scelta di una forma “legale” di eutanasia risparmierebbe il ripiego su tante altre possibili forme di suicidio più violente e cruente che spesso si scelgono comunque, in alternativa alla sofferenza e al dolore.
Ed a proposito di libertà individuale (che nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, redatta in Francia nel 1789 così si declinava: "La libertà consiste nel poter far tutto ciò che non nuoce ad altri. L'esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento degli stessi diritti. Questi limiti possono essere determinati solo dalle leggi."), viene da richiamare (con ciò non sottintendendo necessariamente una mia condivisione) quanto qualche anno fa, poco tempo prima della sua morte, Indro Montanelli scrisse sul Corriere della Sera: "Io non mi sono mai sognato di contestare alla Chiesa il suo diritto di restare fedele a se stessa, cioè ai comandamenti che le vengono dalla dottrina. La dottrina, cioè il verbo attribuito al Signore, prescrive che l'uomo debba ignorare il giorno della propria morte. È più che naturale, e non vedo come potrebbe essere altrimenti, ma che si pretenda di imporre questo comandamento anche a me, che non ho la fortuna - e la prego di fare attenzione alle mie parole, dico e ripeto, non ho la fortuna di essere un credente - cercando in ogni modo di travasarlo nella legge civile, in modo che diventi obbligatorio anche per noi non credenti, le sembra giusto? A me no."
È vero che a voler tenere in conto le idee di tutti non si arriva ad alcuna conclusione, ma in fondo la democrazia è sul confronto che si fonda e fermare un referendum – che è espressione di democrazia diretta – equivale a fermare un confronto, il cui esito non è peraltro scontato: ammettere un referendum non ne implica automaticamente la vittoria.
Tuttavia, alla luce delle parole dette in conferenza stampa dal Presidente della Corte Costituzionale all’indomani della bocciatura, queste riflessioni vanno forse un po’ oltre, dal momento che le motivazioni del “veto” sono, viceversa, rimaste più in superficie: il quesito era mal posto poiché era sull'omicidio del consenziente e non sull’eutanasia. Il risultato sarebbe stato perciò di rendere l'omicidio lecito in casi più numerosi e ben diversi rispetto a quelli dell'eutanasia, aprendo all'impunità penale di chiunque uccide qualcun'altro con il consenso, sia che soffra sia che non soffra.
Amen.