Le luci di Sanremo si sono finalmente spente, anche se i commenti, le ospitate e i vari strascichi hanno continuato a monopolizzare notiziari e palinsesti televisivi per altre innumerevoli ore, come se quelle di durata della lunga maratona canora (e non solo) non fossero state già troppe.
Stando alla narrazione di ogni giorno dopo, pare esser stato il festival dei monologhi, mediante i quali si è cercato di veicolare messaggi importanti - dai temi sociali alle rivendicazioni di diritti - passando attraverso le esperienze più o meno personali delle interpreti (già, pare siano state esclusivamente donne, a dispetto dei vincitori della gara canora!) o, semplicemente, dal consenso mediatico di cui godono.
Senza scendere nel merito dei contenuti, la riflessione che viene da fare è se, ed in che misura, sia stata efficace e realistica la presa di posizione sui temi trattati e quanto invece non sia prevalsa la spettacolarizzazione, col risultato di svilire la sostanza delle questioni a esclusivo vantaggio della scena, talvolta sfiorandosi persino il paradosso di accentuare ciò che nelle intenzioni si intendeva contrastare.
Mi fermo ancora una volta alla sola prima serata.
Sul palco c’è una damigella d’onore che ostenta slogan e abiti provocatori come strumento di contrasto alla violenza fisica e psicologica nei confronti delle donne. Nel suo incitamento coinvolge anche la voce delle rappresentanti della rete nazionale D.I.R.E. (cui fanno capo la gran parte dei centri anti-violenza femminile d’Italia) alla quale l’influencer ha perfino devoluto il suo corposo cachet sanremese in segno di solidarietà. Eppure la loro è un’apparizione breve e poco curata, che nemmeno dà troppo spazio alla loro identità, giacché sono presentate col solo nome di battesimo. Per il resto, più che all’azione si preferisce “dar parola” ad esteriorità - quali griffatissimi abiti con scritte ad effetto o nudità ritratte e monili dai richiami anatomici (come la collana a forma di utero indossata dalla co-conduttrice la sera della finale) - che finiscono paradossalmente per incarnare essi stessi quell’idea oggettivizzata della donna che vorrebbero invece combattere.
Mi domando come si possa pensare di annientare la visione maschilista del mondo e le pretese di dominio maschile cui sono sottomesse moltissime donne utilizzando come armi di difesa proprio quegli elementi – il corpo, l’utero – che sono sempre stati le fondamenta dell’ideologia dell’asservimento, quella che appunto identifica la donna-oggetto con le sue parti erotiche o procreative.
Mi domando pure se possa davvero essere sufficiente l’imperativo “pensati libera” appuntato sul drappeggio di una elegante stola a risollevare lo spirito di tante donne che “di fatto” non possono esserlo.
Tra palco e realtà c’è un’abissale differenza, che consta del peso, del dolore e della paura di storie vere contro cui nessun incitamento alla ribellione, al sentirsi libere può essere efficace.
Lo ha dimostrato nei fatti – neanche a farlo apposta - due giorni dopo la fine del Festival una vicenda esemplare: quella della ventenne bengalese che, a Stresa, è stata segregata in camera dal padre per cinque giorni, senza cibo e senza servizi igienici, pur di allontanarla dal fidanzato (lo stesso che ha allertato le forze dell’ordine che l’hanno liberata), giacché promessa in sposa ad un connazionale.
E tra palco e realtà c’è persino un muro, che non divide ma, anzi, abbatte, meglio di quanto non abbiano saputo fare le barocche performances sanremesi.
È il muro su cui Banksy la mattina di San Valentino ha lasciato il suo semplice e diretto messaggio alle donne maltrattate e sottomesse, dipingendole (nel vero senso del termine) per ciò che realmente sono e per ciò che dovrebbero poter fare, così demolendo anche lo stereotipo ipocrita di una festa che perlopiù è una finzione, quando non è addirittura una beffarda tregua interposta a relazioni spesso malate e violenze domestiche ricorrenti.
Il disegno, apparso sul muro di una zona desolata di una località nel Kent, ha un titolo emblematico: ‘Valentine’s Day mascara’, ma il mascara cui fa riferimento altro non è che l’occhio tumefatto di una donna – cui manca anche un dente – raffigurata in tenuta da casalinga anni ’50 con tanto di grembiulino e guanti gialli. Tuttavia sorride, poiché ha appena scaraventato dentro un vecchio frigo (vero, un rifiuto abbandonato addosso al muro e che entra a far parte del disegno) l’uomo che l’ha evidentemente ridotta in quello stato, soddisfatta di essersi finalmente presa la sua rivincita “scaricando” il suo aguzzino.
È un messaggio forte, che non ha avuto bisogno di discorsi, di scenografie né d’alcun’altra solennità per centrare il suo obiettivo: augurare – piuttosto che sollecitare – che tutte le donne vittime di un carnefice che dimora tra le mura domestiche trovino il coraggio di sbarazzarsene, ripulendo la loro vita e gettando via possibilmente anche guanti e grembiulino, simboli – essi si, non come i costosi abiti griffati indossati da paladine col Rolex – d’una condizione che richiede molto più che la popolarità d’una diva social per essere combattuta.