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Tutti i giorni della mia vita

Autore: Ester Annetta
Li ho rivisti domenica mattina. Era un’ora più tarda rispetto a quella in cui solitamente li incontravo in primavera, forse perché l’aria adesso è più fredda quand’è presto e bisogna aspettare che sia già giorno fatto per godere del tepore del sole d’autunno.

Marito e moglie, una coppia anziana che, seguendo un delicato rituale di sostegno reciproco e complicità, ogni mattina passeggia lungo il sentiero del parco, mano nella mano.

Lui mostra segni di maggior affaticamento; si appoggia ad un bastone e rimane un passo indietro rispetto a lei, che, senza lasciargli la mano, sembra guidarlo, difendendolo dalle insidie dello sterrato e proteggendolo dall’invadenza di qualche cane lasciato senza guinzaglio dal suo padrone.

Sono l’immagine della tenerezza che non affonda nelle rughe dell’età; il simbolo di un attaccamento e di una cura reciproca che si fanno alimento di un tempo in cui i sogni e i progetti sono ormai scaduti ed altro non resta che contare i giorni che restano, portandoli a compimento con la serenità di chi sa di aver speso la propria esistenza come meglio poteva.

Mi torna in mente quell’antico giuramento che è tuttora la formula che sancisce l’unione matrimoniale, quel “vincolo sacro” che, nell’evidente ossimoro di tale definizione, cela invece la potenza d’un legame che un tempo, lungi dall’essere considerato un giogo, si riteneva una benedizione.

“…prometto di esserti fedele sempre, in ricchezza e povertà, nella gioia e nel dolore, in salute e in malattia, e di amarti ed onorarti tutti i giorni della mia vita”.

Quant’è diventato imprudente, oggi, spingersi ad un tale impegno – che più che un giuramento pare una minaccia - in un’epoca in cui la “clausola risolutoria” di ogni relazione è pretesa quasi come condizione essenziale per la definizione dell’accordo. È com’è priva di “formalismo emotivo” l’unione - qualunque essa sia – priva di cerimonie e di rituali sacri o civili.

Sono sempre meno le coppie che decidono di suggellare il loro legame con un matrimonio, preferendo la formula più sciolta della convivenza che, se non altro, in caso di rottura, pone al riparo da consistenti pretese economiche. Al tempo stesso lascia aperta la strada al una “fluidità” (come si dice adesso) di sentimenti per cui passare da un partner all’altro - indipendentemente anche dal genere, talvolta – diventa quasi una sorta di rivendicazione di indipendenza.

Penso che c’è stato un tempo in cui l’unione della coppia è stato davvero il cemento della famiglia, spesso anche senza che alla base vi fosse un’effettiva passione, ma che tuttavia non ha mai tradito quella solidarietà e quel valore di reciproco sostegno che consentiva di far fronte ad ogni necessità o mancanza. Spesso si confondeva con il senso del dovere, tipico di una società patriarcale in cui la moglie era sottomessa al marito e, tuttavia, nella sostanza finiva per essere colei che realmente reggeva le redini della casa e della famiglia, divenendone fulcro e cardine, conservando con intelligente rassegnazione la consapevolezza d’essere la vera anima di quella struttura che assegnava all’altro il merito del suo esistere.

Mia zia, la maggiore delle sorelle di mia madre, aveva sposato suo marito per procura, come spesso accadeva in quegli anni del dopoguerra che portavano tanti italiani ad emigrare verso le Americhe. S’erano conosciuti da ragazzi, ma nessuno dei due poteva sapere come e chi fosse diventato l’altro a distanza del tempo e dei continenti che li avevano tenuti separati. Eppure hanno mantenuto fede a quell’antica promessa, pur non avendola pronunciata tenendosi le mani e guardandosi negli occhi, rimanendo per tutta la vita l’uno accanto all’altro, dapprima “in povertà e dolore”, poi “in ricchezza e gioia”, cittadini d’una terra lontana e straniera dove hanno messo al mondo e cresciuto figli e nipoti che hanno imparato ad amare a distanza la terra dei loro genitori senza averla mai conosciuta.

Onorandosi e rispettandosi.

Questa formula desueta, che nessuno tiene più in considerazione, è oggi ritenuta un’ipocrisia che non giustifica il perdurare di un rapporto quando ormai il sentimento è estinto. Come se poi questa fosse un’equazione necessaria e non fosse invece possibile conservare il reciproco rispetto oltre la durata d’un matrimonio o d’un legame affine.

La deriva dei valori, il trionfo dell’egoismo, la pretesa di un’indipendenza sbandierata come la liberazione da una schiavitù che in verità non c’è mai stata, impediscono invece di ammettere la necessità del maturo “sacrificio” di risparmiare che sotto le macerie d’un rapporto mal riuscito sia seppellito anche il buono che c’è stato. Figli compresi.

Perciò guardo quelle due anime belle che si tengono teneramente per mano pensando a quanto siano ormai rare immagini come queste, destinate presto a scomparire insieme agli ultimi esemplari di generazioni che hanno ben conosciuto il significato d’ogni singolo ingrediente – comprensione, dovere, solidarietà, rispetto – che ha composto la malta con cui hanno reso solide le loro “case”.

Le seguo con lo sguardo lungo quel sentiero di cui si vede la fine, giù in fondo, al cancello che si affaccia sul resto della città e del mondo.

E mi sembra la metafora del loro tempo, la fine di un cammino che per tutta la vita hanno affrontato insieme, sorreggendosi l’un l’altro, e che si approssima a quel cancello oltre il quale l’augurio è che il loro legame trovi l’eternità.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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