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Unchild

Ogni guerra è una guerra contro i bambini.

Autore: Ester Annetta
Lo affermava con forza nel 1919, Eglantyne Jebb, la fondatrice di Save the Children, dopo i disastri della prima guerra mondiale; ed è una verità sempre attuale, che si ripropone nella sua drammaticità e nella sua crudezza col sorgere (e perdurare) di ogni nuovo conflitto.

Accade in quelli più recenti e prossimi, come Israele e Ucraina, e in quelli più lontani e dimenticati, come Siria, Yemen, Niger.

Sono difatti i bambini a pagare il prezzo più alto, in guerra; sono le vittime dirette del fuoco e dei bombardamenti, ma sono anche quelle indirette, legate ad una condizione di sopravvivenza fatta di privazioni o abusi: malnutrizione, mancanza di accesso all’educazione, sfruttamento, compreso quello di matrimoni precoci, decisi spesso dalle famiglie nel tentativo di evitare altri tipi di abusi e violenze alle loro bambine.

Per definire la loro tragica condizione è stato perfino coniato un nuovo termine, “unchild”, che si potrebbe tradurre come senza-infanzia, per rendere più evidente la prima e più immediata conseguenza della guerra sulla condizione dei bambini.

La ‘magia nera’ d’ogni conflitto è quella di rubare il candore dell’infanzia, tingendola del nero del lutto e del grigio dell’incertezza; di far scomparire la spensieratezza e il disincanto che dovrebbero connaturare un’età a cui non compete alcuna consapevolezza delle brutture e delle tragedie dell’esistenza; di pretendere il brusco salto verso esperienze e conoscenze che non si adattano ai parametri richiesti dall’anagrafica.
A ogni bambino, a qualunque latitudine terrestre, spetterebbe un mondo protetto da insidie e violenze, da sangue e dolore, da perdite e abbandoni.

Ognuno di loro avrebbe diritto a soddisfare le sue esigenze di base: mangiare, bere, accedere alle cure mediche, andare a scuola.
Dovrebbe poter giocare, immaginare, avere fantasie colorate.

All’opposto, non dovrebbe conoscere la necessità della fuga, l’esilio, l’orfananza.

Soprattutto, non dovrebbe aver paura.

Invece è altro che accade.

Delle circa 10mila vittime contate nell’ultimo mese a Gaza – ultima guerra in ordine di tempo - la metà sono minori; 1434 erano già i bambini palestinesi uccisi dal 2008 fino a quel tragico 7 ottobre. E tutto questo nonostante tanto israeliani che palestinesi abbiano ratificato (rispettivamente nel 1991 e nel 2014) la Convenzione sui diritti dell’infanzia, assumendo l’obbligo di «proteggere e realizzare i diritti dei bambini».

Sono dati che vanno ben oltre la pretesa “accidentalità” delle loro morti e confermano un risultato che, con formula efficace, il segretario generale dell'Onu, Guterres, ha definito “un cimitero di bambini”.

Una non-vita, una dis-infanzia già presente da decenni in quella terra contesa e disperata, ma su cui soltanto la nuova escalation di orrore ha riacceso i riflettori, risvegliando la coscienza mondiale sulle gravi violazioni dei diritti umani che avvengono da ormai troppo tempo in territori già mutilati di strutture, di aiuti, di popolazione.

In quella “prigione a cielo aperto” che è Gaza, da ormai sedici anni i combattenti israeliani hanno continuato a uccidere, dilaniare corpi, rendere orfani, imprigionare, privare di futuro centinaia di bambini di ogni età. È in atto da decenni la più grande azione disumana – con un apice che non aveva prima d’ora ancora raggiunto vette così elevate – mai commessa nella storia dopo l’Olocausto.

I soldati uccidono, senza – letteralmente - guardare in faccia nessuno, come se avessero di fronte soltanto un bersaglio mobile da abbattere, privo di identità, di forma, di volto. Uniformi, simboli, bandiere posti l’uno contro l’altro, al di là della vite che pulsano dietro di essi. Perché è solo disumanizzando il “nemico” che si può rabbonire la coscienza e declassificare la scelleratezza delle proprie azioni.

È difficile capacitarsi di come tanto sia possibile, soprattutto osservando immagini davanti alle quali non può bastare esser privi d’anima e sentimento, ma serve essere anche ciechi per non vedere l’orrore.

Una foto tanto eloquente quanto devastante invade il web in questi giorni. Ritrae una donna inginocchiata accanto ad un fagotto bianco che racchiude il corpo di sua sorella, mentre in braccio ne stringe uno più piccolo che contiene quello di sua nipote.

La didascalia che ha scritto l’autore della foto – il giornalista palestinese Mahmoud Bassam - nel pubblicarla sul suo profilo Instagram, recita: Chi avrebbe mai pensato che il gemito del mio cuore spezzato sarebbe stato l'ultima ninna nanna per il tuo sonno eterno?”, mentre, nel video pure da lui realizzato, si sente, al di sopra del frastuono di sottofondo, il lamento della donna, che sussurra alla bambina: "La zia ha nostalgia di te, tesoro. La zia ha nostalgia di te Massa”.

Di fronte a quella Pietà, a quella singola immagine di disperazione che racchiude la stessa di ogni madre, di ogni famiglia, come si può restare freddi e indifferenti? Come si fa a non udire amplificato e potente l’urlo di una popolazione innocente, che non combatte ma soltanto subisce l’ira e la vendetta dei signori della guerra che trattano le loro vite come pedine lasciate cadere sul tavolo d’un macabro gioco?

All’intervistatore che ha chiesto all’autore della foto quale titolo potesse darle, il fotografo ha risposto: "La Palestina che abbraccia Gaza", dove la donna è la Palestina, che stringe forte il corpo della sua bambina, ovvero Gaza.

Ecco, è quello che andrebbe ricordato a tutti coloro che ancora continuano a vedere quest’ennesima guerra soltanto come una questione di colpe storiche e di vendette, trascurando quell’abbraccio necessario che va oltre le ideologie e guarda invece alla realtà più prossima; che potrebbe salvare ancora migliaia di vite; che potrebbe consolare i bambini restituendo loro il sorriso perduto dell’infanzia.
 © FISCAL FOCUS Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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