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Vite ai margini

Autore: Ester Annetta
È un torrido mattino di giugno; per le strade del quartiere Cenisia di Torino un’anziana donna si trascina a stento, senza una meta. Una pattuglia di poliziotti la nota e si avvicina chiedendole se ha bisogno d’aiuto. Forse è la prima volta, da giorni, che qualcuno le rivolge la parola e si premura di domandarle se va tutto bene; così la vecchina prorompe in un pianto liberatorio, raccontando agli agenti di non avere più un soldo, di avere il frigo e la credenza di casa vuoti e di non mangiare da più di 12 ore. “Non è tanto di cure mediche che ho bisogno” - precisa ai poliziotti - “ma vorrei tanto poter pranzare con qualcosa che non mangio da tanto tempo: un pollo arrosto con le patate al forno”.

La sera di una domenica di giugno, a Valsamoggia, provincia di Bologna, ai margini del bosco presso l’Abbazia di Monteveglio, la quindicenne Chiara Gualzetti viene uccisa da diverse coltellate alla gola e al torace. L’assassino è un 16enne, suo amico, che poche ore dopo confessa l’omicidio, aggiungendo di averla colpita con un coltello preso in casa e di aver continuato a prenderla a calci in testa dopo che era caduta a terra. Ha raccontato di averla ammazzata perché gliel’ha ordinato una “voce interiore”, assecondando peraltro un desiderio della stessa ragazza, che pare avesse espresso l’intenzione di farla finita: "Se mi uccidessi non mancherei a nessuno", aveva scritto in una chat wathsapp col suo assassino, che aveva quindi replicato "Ti do una mano io se proprio vuoi".

Nel primo pomeriggio di un’altra domenica di giugno, un altro giovane, il 18enne Orlando Merenda, si toglie la vita gettandosi sotto ad un treno a Torino. Non lascia nessuna spiegazione, nessun biglietto d’addio. L’ipotesi inizialmente formulata è che si sia suicidato perché stanco dei continui atti di bullismo e omofobia di cui era bersaglio a motivo della sua omosessualità; più tardi viene invece avanzata l’ipotesi che possa essere stato istigato al suicidio perché vittima di un ricatto.

Sono tre storie apparentemente distanti e diverse tra loco, accostate solo perché quasi coincidenti temporalmente. A prima vista.

In realtà è un altro il filo sottile che le lega, facendone la diversa sceneggiatura di un unico, identico dramma. Sono tutte storie di solitudine, di sofferenza e di disagio, più o meno manifesti ma ugualmente inaccettabili.
C’è, nella storia della vecchina di Torino, la solitudine che coincide con l’assenza, quella di una generazione “datata” e troppo spesso dimenticata, vittima di una indifferenza che non è solo noncuranza ma una sorta di consapevole giudizio ponderale che legittima il passare oltre di fronte alle mancanze di vite che sono state comunque ampiamente vissute, che hanno accumulato una conta d’anni sufficiente a potersi considerare “scadute”, non più degne d’attenzioni presenti e puntuali.

C’è poi l’altra solitudine, quella giovanile, che equivale invece ad una presenza di sola superficie che perciò conduce - ma stavolta senza lucida consapevolezza - alla stessa indifferenza, quella travestita da una prodigalità di cure ed attenzioni che liscia appena l’epidermide di quelle generazioni più prossime, senza scavare nella loro inquietudine. Sono proprio quei giovani che, al di là della loro floridezza esteriore, sono spesso già appassiti dentro, stanchi di vivere prima ancora d’aver sperimentato il peso degli anni e le vicissitudini dell’esistenza, prede di fantasmi che innalzano a loro idoli e modelli ed ai quali si immolano nell’intento di eguagliarli. Sono una pletora di spiriti acerbi, spesso vuoti di desideri, progetti e aspettative, fragili come cristalli che un acuto o un leggero urto possono mandare in frantumi; voci inascoltate, che sussurrano appena dalle profondità di un animo turbato ed insicuro, celato dietro la corazza della sicurezza sprezzante e dell’arroganza.

Sono naufraghi: i più vecchi, quelli che hanno ormai perso la meraviglia per la vita, sono abbandonati ai flutti d’un finale a sorpresa di esistenze già compiute; gli altri, incapaci di meravigliarsi della vita, sono invece abbandonati ai marosi dell’irrisolutezza e della paura del futuro. I primi temono la solitudine nella morte, gli altri quella in vita.

Invisibili, gli uni e gli altri. I vecchi, scarti d’esistenza; i giovani, germogli di vita privati d’autenticità, omologati da regole sociali, tendenze e like.

In mezzo, tra questi estremi anagrafici che contengono, come parentesi, lo spazio della vita vissuta, ci siamo noi tutti, spettatori di drammi sottovalutati, analisti dell’apparenza giudicata e mai adeguatamente filtrata e, infine, responsabili – come società – del fallimento d’ogni singolo, sia che si tratti d’un anziano senza adeguato sostegno e tutele, sia che si tratti di un adolescente che muoia per mano fisica o per spinta psicologica dei suoi idoli astratti o dei suoi reali rivali.

La colpa della loro deriva solo in parte è imputabile alla contingenza del momento, all’isolamento ed alle perdite causate dalla pandemia. Oltre e su tutto resta la responsabilità di tutti noi adulti della generazione di mezzo, troppo miopi per riuscire a guardare oltre la cortina che cela i disagi dei nostri giovani; troppo presbiti per accorgerci del bisogni semplici racchiusi nella mano rugosa che ci tendono i nostri vecchi.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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