Mentre sfoglio virtualmente qualche pagina di giornale, mi capita a tiro la lettura di un’intervista fatta qualche giorno fa ad una analista del linguaggio, il prof. Francesco Mercadante, che, interpellato sul ruolo della parola nella vita degli esseri umani e sul suo corretto utilizzo, sostiene decisamente: «La parola è, anzitutto, il tramite della relazione, dell’aggregazione e dell’esistenza. Lo è anche quando ci affidiamo all’artificio retorico e alla menzogna. In altri termini: quando tentiamo di usare la parola per negare la parola stessa, per prendere le distanze da qualcosa o da qualcuno, in realtà, stiamo generando altri legami, senza rendercene conto. Le parole che usiamo rappresentano il nostro mondo, lo mettono interamente a nudo perché l’uomo esiste unicamente in ciò che racconta di sé agli altri».
Mai affermazione mi è parsa più adeguata e, anzi, premonitrice, dacché - per una strana coincidenza - l’articolo che subito dopo mi è passato sotto gli occhi è stato quello relativo agli esiti della selezione dell'Oxford Word of the Year – la parola dell’anno – proclamata da Oxford languages, la sezione di linguistica dell’editore del noto vocabolario di lingua inglese Oxford English Dictionary.
In base ai voti raccolti – che, per la prima volta nella storia dell’iniziativa, sono stati aperti al pubblico anziché limitati ai soli lessicografi dell’istituzione – la lunga lista iniziale delle espressioni scandagliate dal database dell’Oxford Corpus si è infine ridotta a tre sole parole, ritenute espressive dei valori, dell’umore e delle preoccupazioni che hanno accompagnato l’anno che sta per concludersi: “metaverse”, “goblin mode” e #IStandWith (“io sto con”, “io sostengo”, che è stato l'hashtag di numerose battaglie per i diritti combattute in questi mesi).
Con 318.956 voti su 340 mila – ossia il 93% - a vincere è stato il termine “goblin mode”, che letteralmente vuol dire “modalità Goblin” - con un chiaro riferimento a quelle mostruose creature fantasy, spesso cattive, che popolano film e disegni animati – ma che, nel linguaggio corrente, viene impiegato per indicare “il piacere di essere impresentabili e sciatti”. Si tratta, in sostanza, dell’etichetta che contraddistingue il rifiuto delle imposizioni estetiche (come quelle dei social), e, più in generale, la licenza di non prestare attenzione all'aspetto esteriore come parametro di giudizio degli altri. Una sorta di decisa affermazione, insomma, del noto detto per cui “l’abito non fa il monaco”.
Ma in realtà c’è di più: entrare in “modalità goblin” descrive - secondo quanto espresso dal Presidente di Oxford Languages, Casper Grathwohl - “un comportamento impenitentemente autoindulgente, pigro, sciatto o avido” e, dunque, il riconoscersi in un modo di essere che rifiuta le norme o le aspettative sociali e legittima la peggior versione di noi stessi o, semplicemente, la più veritiera.
Insomma, l’espressione ha catturato lo stato d'animo prevalente di individui che, sopraffatti dagli eventi – pandemia, guerre, disastri climatici - si sono ribellati agli standard estetici sempre più irraggiungibili e agli stili di vita insostenibili esibiti sui social media, preferendo, viceversa, “proteggersi”, abbandonandosi ad una condizione confortevole e manifestandosi in tutta la loro disarmata e fragile ordinarietà, anche quella fatta di sconforto, diffidenza, paura.
La selezione si è, insomma, rivelata una sorta di vera e propria indagine sociale che ha messo a nudo le effettive tendenze degli individui quando non sono costretti ad adeguarsi ai modelli richiesti dal contesto, svelando quelle reali identità che raramente coincidono con le immagini idealizzate di sé stessi che si ostentano sui social.
A conferma di tanto vi sarebbe – sempre secondo il Presidente Grathwohl – la riscontrata ascesa di piattaforme in cui gli utenti condividono proprie immagini scattate al momento, senza filtri e artifici, “catturando momenti di autoindulgenza”, lontano dai giudizi (e dall’ammirazione) degli altri.
Potrebbe effettivamente trattarsi di un segnale positivo, sempre che si tratti di un’esigenza autentica e non sia, invece, a sua volta una forma di ostentazione “al contrario”, una competizione di segno negativo che si traduce in una sorta di gara al primato del cattivo gusto.