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Il sognatore

Autore: Ester Annetta
"Questa sera, dopo una prolungata e grave malattia, Mikhail Sergeevich Gorbaciov è morto".

Con questo scarno comunicato, la clinica presso cui era da tempo ricoverato ha riferito al mondo, poche sere fa, la morte di un leader che ha fatto la storia del suo Paese, quell’Unione Sovietica che con lui ha vissuto il disgelo della Guerra Fredda, andando incontro ad una nuova primavera che l’avrebbe trasformata anche nel nome.
Quello stesso Paese che, senza nemmeno troppo celare le apparenze, ha tuttavia preferito disconoscere le sue azioni, decantandone più gli errori che i pregi, tanto da relegarlo tra gli invisi, indegno perfino di un funerale di Stato, quasi si preferisse condannarlo ad una sorta di anacronistica damnatio memoriae.

In un momento in cui la Russia sta compiendo un iperbolico balzo indietro, rinnegando tutto quanto aveva conquistato e lentamente costruito, la morte di Mikhail Gorbaciov giunge come un segnale, un monito a ridestarsi, ad aprire gli occhi per scongiurare il pericolo di una infausta retrocessione a quel regime in cui per anni la prepotenza è stata la regola e la libertà un’utopia.

E’ significativo che la fine di Gorby – com’era stato rinominato dopo gli storici accordi firmati prima con Reagan e poi con Bush per porre fine alla proliferazione delle armi nucleari, segnando di fatto un nuovo corso nei rapporti con gli Stati Uniti – giunga proprio nel momento in cui i rapporti tra la Russia e l’Occidente sono tornati a farsi tesi a seguito della guerra in Ucraina, come se segnasse, in coincidenza di questa vicenda, la richiusura di un’epoca che era stata di aperture.

Con Gorbaciov non è morto solo un politico e uno statista: se n’è andato prima di tutto un uomo, la cui profonda sensibilità ha guidato le sue azioni, il cui spirito visionario è stato il motore di un cambiamento profondo, operato con coscienza, guidato da un anelito di pace che ha reso concreto il dispiegarsi del dialogo e della collaborazione là dove per decenni era sembrato impossibile.

E’ stato lui l’uomo che ha permesso di abbattere barriere, di picconare muri di divisione e di ostilità - da quello di Berlino a quello dello stesso Pcus – intuendo prima di ogni altro che fosse quella la sola strada percorribile per impedire un totale isolamento e l’emarginazione storica.

L'uomo della glasnost (trasparenza) e della perestroika (ristrutturazione) aveva dato “un volto umano” al comunismo, agendo sotto l’insegna di una volontà di riforma che di fatto era una vera e propria rivoluzione, come egli stesso ebbe a dire sottolineando che “un’accelerazione dello sviluppo socio-economico e culturale della società sovietica che comporta cambiamenti radicali lungo la strada verso uno stato qualitativamente nuovo è senza dubbio un compito rivoluzionario”.

Peccato che l’abbiano capito solo in Occidente; che, nel suo stesso Paese, il contropotere che aveva voluto combattere era infine riuscito ad isolarlo, deciso ad ostacolare il concretizzarsi della speranza d’una Russia diversa, che risultasse in linea con le richieste di un futuro ormai prossimo ove il mutamento sarebbe stata la condotta più saggia e costruttiva da adottare rispetto allo scontro ostinato.


E così oggi, a poca distanza dalla sua morte ma a tanta di più da quel tempo che l’ha visto protagonista, c’è chi lo accusa d’aver demolito il sistema del suo Paese ma pure chi invece lo rimpiange, riconoscendolo come l’artefice di una conquista di libertà.

Ma tra speranze e utopie, tra realtà e agire pacato ed assennato, Mikael Gorbaciov – l’uomo che amò più la gente che il potere - merita senz’altro un tributo di memoria e di riconoscenza che nessun tentativo di damnatio potrà mai negargli, almeno tra quanti – pur se lontani per geografie ed ideologie - hanno apprezzato il suo progetto visionario e condiviso la sua fede, e adesso più che mai, alla luce dell’agire folle e scriteriato d’un suo indegno successore, ne riscoprono il valore.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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